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In memoria di Giordano Bruno

All’alba del 17 febbraio 1600, la Chiesa cattolica compiva uno dei suoi crimini più gravi bruciando vivo il filosofo che abbatté le pareti del cosmo aprendo la percezione dell’infinito: «Or ecco quello, ch’ha varcato l’aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo, fatte svanir le fantastiche muraglia de le prime, none, decime ed altre, che vi s’avesser potuto aggiungere, sfere, per relazione di vani matematici e cieco veder di filosofi volgari» (La cena de le ceneri, in «Dialoghi italiani», a cura di G. Gentile e G. Aquilecchia, Sansoni 1985, p. 33)

L’immagine “democratica” che la cultura laica dell’Ottocento ha tramandato di Bruno è naturalmente del tutto ingenua. Egli era un platonico, anche in politica, e credeva in una gerarchia intellettuale che distinguesse «gl’ignobili dai nobili» ed evitasse «certa neutralità e bestiale equalità, quale si ritrova in certe deserte ed inculte repubbliche» (De gli eroici furori, ivi, p. 1114), dove invece «il numero de stolti e perversi è incomparabilmente più grande che de sapienti e giusti» (Spaccio de la bestia trionfante, ivi, p. 550). E chi è il “nobile”? Colui che comprende la costanza delle cose nella varietà delle loro espressioni, che non reputa il male e il bene degli assoluti «stimando l’uno e l’altro come cosa variabile e consistente in moto, mutazione e vicissitudine» (Ivi, p. 976), poiché «nessuna cosa è absolutamente mala…ma è mala rispetto a qualcos’altro» ( Spaccio de la bestia trionfante, ivi, p. 686). La perfezione del mondo bisogna misurarla, come pensa anche Spinoza, secondo le sue proprie strutture e non a partire dai criteri dell’umanità. E ancora come Spinoza, Bruno ritiene che «Natura est deus in rebus» (Spaccio de la bestia trionfante, ivi, p. 776). Solo la forza di simili convinzioni -diventate la sua stessa carne- permise al filosofo di non abiurare perché “nulla aveva di che pentirsi”, di andare incontro al fuoco rispondendo ai suoi giudici «maiori forsitan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam» [avete più paura voi a emanare questa sentenza che io a riceverla].

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