Skip to main content

La scoperta della sussidiarietà laterale

Pubblico o privato?  Statale o sociale? Monopolio o concorrenza? Privilegi o merito?
 
L’apertura al privato è il grimaldello non solo per rifondare lo Stato, ma  anche per ricostruire un serio rapporto tra Stato, cittadini e imprese. Un rapporto più che mai sfilacciato, man mano che lo Stato dimostra scarso senso dei cittadini e questi di conseguenza dimostrano minor senso dello Stato e senso civico.
 
Eppure, a seguito della introduzione di una  prima forma di federalismo nella nostra Costituzione, è entrato nell’ordinamento un principio che potrebbe e dovrebbe essere la chiave di volta rispetto all’attuale stretta dicotomia che riduce il dualismo pubblico-privato al dualismo statale-privato: il principio di sussidiarietà.
 
Stato, Regioni, Citta metropolitane, Province e Comuni,  favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento delle attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”, recita l’ultimo comma del nuovo articolo 118 della Costituzione.
Si racchiude in questa norma quella che viene definita la sussidiarietà orizzontale. Quella verticale è stata avviata con la riforma del Titolo V della Costituzione (in cui è appunto ricompreso il nuovo articolo 118), con il trasferimento, in qualche caso un poco confusionale, di funzioni alle regioni e agli enti locali. Molto meno è stata invece incentivata l’applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale. Quello secondo cui spettano ai pubblici poteri, a partire dagli enti più vicini ai cittadini (i comuni), solo le funzioni che i privati, in forma singola, associata, cooperativa, di volontariato non possono esercitare meglio. Si tratta, per una parte molto significativa, di funzioni oggettivamente pubbliche, che non necessariamente debbono essere esercitate da soggetti pubblici. Si pensi per  tutti alla inflazione di municipalizzate (con il codazzo di migliaia di consiglieri di amministrazione) che sono soggetti sostanzialmente pubblici, nonostante il “belletto”, in vari casi, della forma della società per azioni. Siamo pertanto ancora in presenza, tanto al vertice quanto in periferia, di una sorta di “statalismo pervadente e invasivo”, basato in larga parte sull’assunto che la larghissima parte delle attività di interesse pubblico debbano essere gestite in forma “statale” o “municipale”. Questo genera una pesante “pressione burocratica”, non meno opprimente e disincentivante per i cittadini e per gli operatori della pressione fiscale.
 
Fortunatamente in vari settori, specie nelle regioni del Centro Nord, si sono liberate iniziative della società civile, vuoi promosse dalle varie associazioni cooperative o imprenditoriali, vuoi da soggetti di volontariato e del terzo settore, vuoi da imprese tradizionali, che di fatto traducono spontaneamente il principio di sussidiarietà e, per fortuna, esercitano legittime pressioni aprendo dei varchi significativi sui vari moloch pubblici. E si tratta, in molti casi, di soggetti non certo pubblici, che si occupano però del bene pubblico e dei beni comuni, nella sanità come nei servizi sociali, come nei servizi alla persona in genere, nei servizi alle imprese, nell’istruzione come in varie altre attività economiche e sociali.
 
Peccato però che mediamente gli enti statali e territoriali, in questi anni abbiano fatto ben poco per liberarsi da pesi e zavorre, esternalizzare funzioni e incentivare una vera sussidiarietà, un principio su cui, fra l’altro, dovrebbe basarsi,  secondo i Trattati, la Costruzione Europea.
 
Le esternalizzazioni all’italiana.
E’ questa una sfida da lanciare e possibilmente da cogliere, per abbattere monopoli ed oligopoli, favorendo quella seria concorrenza che, con la sua gemella siamese meritocrazia, dovrebbe generare lo slancio  vitale per  superare i vari  statalismi e  corporativismi che asfissiano la società italiana.
E’ questa la via per mettere a dieta lo  Stato. Avviare una vera e propria cura dimagrante. Si parla tanto di federalismo fiscale, ma mi sembra che per ora non si ponga sufficientemente l’accento su quel dividendo che la  “cura federalista” può generare a vantaggio della finanza pubblica e delle tasche dei cittadini e degli operatori. Non sarebbe male cogliere l’occasione dell’avvio di un processo federalista per aggredire un problema che anche esso fa parte di quella sussidiarietà  orizzontale che è la gemella siamese della  sussidiarietà verticale in cui si concreta il federalismo. Si tratta delle esternalizzazioni: una versione che potrei definire “sussidiarietà laterale”. Una parola difficile da pronunciare, ma che sarebbe il caso, finalmente, di declinare, spiegandola con chiarezza agli italiani.         
 
In un mio libro recente (Chi è Stato? Gli uomini che fanno funzionare l’Italia,  Rubbettino) Antonio Catricalà, che è uno dei pochi servitori dello Stato che se ne intendono anche di settore privato e (come oggi è palese a tutti, essendo lui il Garante del mercato) anche di concorrenza, ricorda la sua fatica di Sisifo quando era Segretario generale di Palazzo Chigi. Nella consapevolezza che le attività di automantenimento, quello che viene definito il back office, pesano nel settore pubblico mediamente per il 35 – 40 per cento (a fronte di un 15 – 20 per cento nelle imprese private), aveva varato, fino alla aggiudicazione conclusiva dell’asta pubblica, un progetto di esternalizzazione nel corpaccione amministrativo della Presidenza del Consiglio.
 
Non si sa come e perché, ma il progetto si è poi di fatto bloccato.
 
A questo punto la questione è semplice.  Se, soprattutto negli ultimi trenta anni, le aziende private non si fossero concentrate nel core business, procedendo ad esternalizzazioni di tante funzioni non indispensabili, in buona parte sarebbero fallite.
 
Ora, può sopravvivere una amministrazione pubblica le cui attività, invece di essere finalizzate ad erogare servizi ai cittadini e agli operatori, sono per il 40 per cento destinate all’automantenimento? E’ questo lo spazio in cui necessariamente si dovranno inserire, superando i veto – player sindacali e le visioni vetuste di molti dirigenti pubblici, le esternalizzazioni.
 
L’incentivo e l’accelerazione degli sparuti processi di esternalizzazione avviati nel corpaccione del nostro settore pubblico, sono dunque bloccati soprattutto dai sindacati della funzione pubblica che, anche a fronte di recenti tentativi del Ministro Brunetta, hanno scatenato un fuoco di sbarramento, in quanto, tanto miopi quanto poco presbiti, hanno sempre visto come il fumo negli occhi le esternalizzazioni.  
 
Eppure – come già ho osservato – la società italiana brulica di aziende, cooperative, soggetti di volontariato e del terzo settore pronti in molti ambiti ad assumersi in proprio, a costi minori e con servizi migliori, varie tipologie delle attività di automantenimento e di altro genere di attività che non rientrano nel core business di enti e amministrazioni pubbliche.
 
Pesano però su di essa – vale la pena ribadirlo – una pressione fiscale che arriva a circa il 43 per cento del prodotto interno lordo e una pressione burocratica non meno opprimente, che irretiscono la vitalità spontanea e le chances  imprenditive, in un paese che pur proprio su queste risorse, ha fatto e fa leva ai fini dello sviluppo.
 
Senza una seria cura dimagrante, per la quale si potrebbe cogliere l’opportuna “finestra” del federalismo fiscale, il rischio è che tocchi invece alle imprese mettersi a dieta, tagliando i costi a partire dal personale.   
 
 Sarebbe un poco come se in una famiglia venisse messa a dieta una moglie agile, veloce e snella invece che un marito molliccio, lardoso e che tende ad opprimere troppo i figli.
×

Iscriviti alla newsletter