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L’ottimismo esibito e altri pessimismi

Molti tra noi sono spesso pronti – specie quelli che considerano il pur difficile volontarismo quale fattore determinante dei processi storici, come avviene ai meridionalisti italiani, tra i quali mi colloco – a rendere un qualche omaggio all’ottimismo che, come l’omaggio alla virtù, si tende a non rifiutare mai.
 
Confesso tuttavia che quando registro il rituale ottimismo  strumentale di chi ha responsabilità nella gestione delle istituzioni, dell’economia e della politica, o nell’attingimento di risultati oggettivamente non facili (perché connessi a vincoli strutturali), ne sono turbato, seppur l’invito a guardare il “bicchiere mezzo pieno” viene talora anche da cattedre religiose, etiche e morali, che ne  fanno quasi una questione di principio, che si confonde talvolta con la fiducia e con il pro, e che − con Papa Giovanni− condivido certo con riferimento alla speranza cristiana, ma meno su altro.
 
Una sorta di obbligato ottimismo – specie quando osservo vicende ed andamenti fattuali che volontaristicamente speravo e contavo potessero essere diversi – mi pesa. E non certo perché io astrattamente propenda per il pessimismo agostiniano sulla natura gravemente ferita dell’uomo, o perché io preferisca il pessimismo dell’intelligenza, con cui troppe volte è impossibile non fare i conti (perché, come amo pensare e dire, “i numeri, come i fatti, sono assai spesso testardi”), ma perché mi pare che − a meno che non sia quello della volontà, capace di tradursi in obiettivo ed impegno − l’ottimismo ricercato ed esibito appare essere figlio di una cultura (si fa per dire!) dell’immagine e della propaganda, che pretende di poter rendere vincente una tesi o di cambiare la storia magari solo con la ripetizione delle bugie grandi e piccole, e degli slogan insistiti, tanto insistiti da potersi trasformare in realtà; come la televisione commerciale è convinta di poter sempre fare con i suoi prodotti, e come già i regimi dittatoriali del secolo scorso credevano fosse possibile, facendone anzi la chiave di un non democratico ma voluto e preteso consenso.
 
A pensarci bene, sono non il pro o il contro, ma l’ottimismo ed il pessimismo strutturali a darmi più fastidio, quando li vedo applicati ai problemi di cui da una vita mi occupo – e che sono quelli che nel nostro Paese hanno a che fare con i divari e con gli squilibri tra i cittadini ed i territori delle macro-regioni italiane – il Mezzogiorno ed il Centro-Nord − in cui essi vivono, non godendo però − proprio per il “dualismo nazionale” − né di pari diritti né di pari opportunità: con riferimento all’occupazione, e al reddito, e alla salute, e alle condizioni ambientali e civili; per non dire del benessere, e del diritto alla felicità, cui ci si riferisce negli Stati Uniti (ma usando come misura il dollaro). Allorché poi sono alcuni politici a fare gli ottimisti quando essi sono al potere, ed a fare i pessimisti − o peggio, i disfattisti ed i masochisti − quando militano nelle opposizioni, o quando nell’ottica degli uni o degli altri arrivano ad esaltare quasi fosse un successo od una sconfitta un decimale in più o in meno, magari registrato od osservato nella dinamica congiunturale di un semestre, o di un anno − o due, o tre, o cinque, mentre i fenomeni analizzati sono strutturali, ed il dualismo nazionale dura in Italia ormai da 150 anni senza registrare correzioni significative − allora non sento solo fastidio, ma mi pervade un senso profondo di sfiducia nella qualità dei nostri gruppi dirigenti, e di coloro che al loro servizio spesso strumentalmente si pongono; essi falsano la verità – nel bene e nel male – per indecenti ragioni di bottega, e di contingente consenso.
 
Il mio impegno intorno alla storica “questione meridionale” – e più in generale intorno ai problemi del “ritardo” nello sviluppo di territori di vari continenti e nazioni – dura ormai da quasi 60 anni, ed il mio stato d’animo di oggi non può non essere peggiore e più preoccupato di quello di ieri, quando interlocutori delle riflessioni e delle politiche per la “coesione” erano a vario titolo in Italia personalità come Pasquale Saraceno e Donato Menichella, come Giulio Pastore ed Ezio Vanoni, che non amavano indorare i fatti – e la storia, e la cronaca –, e che dicevano pane al pane, ed insieme si battevano per cambiare i “fondamentali”, e non per illuminarli con un qualche luminescente spot-light.
 
Certo, vale anche il contrario; ed è più che triste dover leggere sulla più sfacciata ed impudente stampa, oggi sovente di opposizione, che le cose vanno tutte assai male, e comunque peggio di quando i loro amici, padroni o referenti, governavano. E mentre da ambienti fin di “governo” vedo oggi guardare con fastidio e sospetto anche istituzioni come l’Istat o la Svimez, perché esse non esaltano a sufficienza una “congiuntura”, o innovazioni che oggettivamente hanno poco di entusiasmante, registro che dagli ambienti della “opposizione” e della “grande stampa” (per non dire da chi coltiva la più provocatoria anti-politica) si arriva ad affermare che di qualsivoglia limite ai successi – limite relativo anche a vicende che giustificano i “tempi lunghi” della storia − è responsabile la c.d. “casta”, e per essa quella di “maggioranza” e di “governo”, se non un qualche singolo suo esponente, additato come simbolo e come “capro espiatorio”.
 
Quando poi ancora vedo che tutto ciò avviene in un Paese che non è mai stato né tutto bianco né tutto rosso né tutto azzurro, ma anzi sempre variegato, ed alternativamente nel tempo diversamente e geograficamente qua e là colorato, allora le cose ed i giudizi si complicano al limite del tristemente risibile, perché registro che gli ottimisti meridionali o di governo di ieri si trovano costretti a scambiare i loro ruoli con i pessimisti nordisti o di opposizione di oggi, e viceversa, qualche volta facendo fatica a rendere coerente – e apprezzabile – qualsivoglia loro posizione e tesi.
 
Se è cosa difficile governare un Paese che ha “cento qualità di formaggi” – come diceva il generale di un Paese vicino, che pur aveva grandi certezze – è certo quasi impossibile governare un Paese dimidiato e dualista come il nostro, in cui pochi sono coerenti con le proprie certezze del momento, e nessuno sa tener fisso lo sguardo al percorso verso una meta cui avvicinarsi, oggi o doman l’altro.
 
Questo è in effetti il problema principale nostro. E poiché la “questione meridionale” è strutturale, sarebbe bene che tutti ci si applicasse non a discettare sulle dinamiche di ieri e di oggi (o ad inventarsi altre “questioni”, che hanno ben altre radici e motivazioni), ma a condividere − con cristiana speranza − strategie di “coesione” per il futuro, che maturerà solo in tempi necessariamente lunghi; e quindi non di ottimismo o pessimismo vi è bisogno, ma di ponderate e quantificate scelte di campo, e soprattutto di cospicui investimenti: di serietà, di coerenza, di efficienza, di risorse in quantità e qualità, e di volontaristiche certezze.
 
Per favore, perciò: feet on the ground. E che tutti ci si sforzi di non accusare mai gli altri dei propri stessi limiti ed errori.


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