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Campioni azionali

Se uno ha Gianni (Letta), e se poi aggiunge Giulio (Tremonti), più di metà del lavoro è fatto. Il resto, è quasi tutto tempo che si può dedicare, senza eccedere, alle “carinerie”. Anni fa, Silvio Berlusconi ha detto una cosa opportuna. Disse così: “Gianni Letta è un regalo di Dio agli italiani”. Giorni fa, ha detto un’altra cosa opportuna (e non che tutte le cose che dice siano opportune). Ha detto così: “Tremonti è un genio”. E allora, se disponi tanto di un genio quanto di un dono del cielo, puoi far miracoli per davvero, non solo sui manifesti elettorali. L’uomo di Avezzano e quello di Sondrio – il gentile fino allo sfinimento e il sarcastico fino alla sorpresa – insieme combinati sono, per restare al tema, una mano santa per il premier e la prova di quanto superfluo può rintracciarsi nel resto della truppa ministeriale. Nell’universo berlusconiano – senza carichi di servitù né di acritica esaltazione, a ragione di riconosciuta e superiore intelligenza – Gianni e Giulio sono come Bartali e Coppi (e chissà se la borraccia d’acqua, sottotraccia, viene anche qui discretamente allungata), solidali e comunque avversari. Sono la coppia di cui davvero Berlusconi può andar fiero, anche se  poi il premier per tendenza caratteriale non è certo ingeneroso nel distribuire riconoscimenti per ogni dove. E ancora, nell’epica governativa di Silvio, svolgono il ruolo classico, cinematografico, del poliziotto buono e del poliziotto cattivo – quello che blandisce e quello che incalza, mirando sempre e comunque al risultato della confessione. È Gianni, si capisce, lo sbirro buono del berlusconismo. Mai e poi mai, se ti avvicini o è lui che si avvicina, fa mancare un sorriso: fosse con il Papa (dove, saggiamente, Berlusconi sempre si fa accompagnare), fosse con Giancarlo Pajetta (e infatti c’è una foto giovanile dove, con gran massa di capelli phonati, amabilmente colloquia con il Capo comunista). Giulio, dunque, è quello cattivo. Lui pure magari sorride, ma di un sorriso che fa capire immediatamente che c’è poco da chiedere e ancor meno da pretendere. Come hanno sperimentato,  nei tempi blindati della Finanziaria, parecchi ministri. Gianni assicura sempre che una strada si troverà, Giulio indica sempre che il sentiero è quello e c’è poco da andarsene a girare in tondo. Più diversi non si potrebbe, più complementari nemmeno. Di Tremonti si possono trovare decine di brillanti interviste, saggi su saggi, serate televisive su serate televisive. Di Letta non si trova un’intervista, non si rammenta un saggio, qualche serata per qualche premio teatrale – tra l’altro con insospettabile spigliatezza, manco avesse praticato, con Silvio e con Fedele, quelle antiche e mitiche navi da crociera. Gianni è e resta un tipo da puntini di sospensione; Giulio un teorico del punto esclamativo.
Per dire, ultimamente Tremonti ha scoperto e ripetuto la metafora del “tempo di ferro” che ci attende e ci assedia. “Sta arrivando un tempo di ferro che non si sfida con l’estetica politica”. Tempo da duri, che scendono in campo perché il gioco si fa duro. “Tempo di ferro” è tempo, intuibilmente, di scarse mediazioni, di pochi margini,  di dolorose durezze. Non è, s’intende, il tempo che può immaginare Letta – uomo dall’orizzonte mobile e dal tempo, casomai, morbido, avvolgente, lieve, trionfo esatto dell’estetica politica. Dove tutto si conosce, e dove (quasi) tutto può avere degnissima sistemazione. C’è chi ha scritto che i necrologi di Letta – che mai manca nella triste circostanza, condolente e attento – andrebbero pubblicati in volume, quasi storia minore (e reale) della stessa storia nazionale. “Bisognerebbe studiarseli – ha scritto Marco Damilano dell’Espresso – per capire un pezzo importante d’Italia: quella delle buone maniere, della buona educazione un po’ ipocrita, così tipicamente democristiana” – niente, a ben guardare, di così deprecabile. Solo Bettino Craxi, una volta – un’unica volta, e si comprende come sia comunque una volta di troppo – gli ha dato dell’insolente, per una domanda in un programma televisivo. Banalmente: l’eccezione che conferma la regola, così che in anni in cui si sono pubblicati interi prontuari di pubblici insulti, solo quello è toccato al dono personale che il Signore ha voluto fare a Silvio e a noi. Se per il curato di Bernanos tutto era grazia, per Gianni, più prosaicamente, tutto è soavità: forse persino i calzini bianchi (calzini bianchi!) che qualcuno ha scritto di aver visto adornare le sue caviglie nel tremendo frangente estetico tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta. “C’è una sola persona indispensabile a Palazzo Chigi. Pensate sia Silvio Berlusconi? No, è Gianni Letta”, ha detto di lui il Cavaliere, e bisogna avere ben presente la notevole comprensione del  premier verso la propria indispensabilità, per valutare la portata di un tale complimento. Poi certo, aveva anche garantito, nella primavera scorsa, “che entrerà al governo anche Gianni Letta e questa volta nel ruolo di ministro”, e poi non è successo niente – ma quel niente racconta solo di una sorta di eternità che il ruolo ministeriale avrebbe, paradossalmente, ammaccato – reso materia, quotidianità governativa, ciò che è quasi puro spirito del tempo (altro che di ferro) berlusconiano. Così Silvio, che quando è espansivo lo è fino ai confini estremi, lo ha persino proposto quale prossimo presidente della Repubblica, e a momenti Napolitano neanche aveva messo piede al Quirinale. Non c’è nessuno che non ambirebbe a un Letta nel suo campo, anche a quel Letta già fatto e formato nel campo avversario, come da complimento ripetuto giunto da Veltroni. Equilibrio e garanzia. “Con uno come Letta – ha scritto sull’Unità lo scrittore Roberto Cotroneo – puoi caricarci gli orologi, tanto ogni suo gesto è preciso”. L’uomo che bisbiglia alle orecchie dei potenti, in un contesto di urla e apparizioni e insulti, è davvero dono (o scherzo) divino.
L’altra parte della fortuna berlusconiana è Tremonti. Che di Letta è l’esatto opposto. Se ogni (rarissima) pronunciamento di Gianni prepara a un atterraggio morbido, tra giri di frasi e parole soffuse, ogni dichiarazione di Giulio è assalto, irruzione in campo, sconcerto nelle fila avversarie. Neanche fai in tempo a spacciarlo per un servo dei padroni, che quasi te lo ritrovi alla testa del proletariato, perciò “Marx e Il Capitale sono testi straordinari”. Il lampo di feroce ironia che gli attraversa lo sguardo, quando sta per lanciarsi nella polemica, è la sua cifra esatta e affascinante. “Marx i sessantottini li avrebbe presi a calci nel culo” – e c’è da credergli. Così quando affonda il sarcasmo nel “fascino maligno dei salotti”, ventre molliccio, acque morte. “Parlando con lui – e a parlare è Berlusconi – si sente un pirla anche chi non lo è, perché Giulio trasmette la sua intelligenza come prima cosa”. Letta lascia correre, Tremonti precisa. Anche il modo di esprimersi dice del loro essere speculari e necessari – se l’era berlusconiana vorrà lasciare dietro di sé qualcosa di più della scontata epopea, sospesa tra il carismatico e la battuta, del Caro Leader. Una lettera di Gianni a un giornale è un evento; una missiva di Giulio, se c’è qualcosa da precisare, una certezza. E pur sognando, come ha raccomandato in una memorabile lezione ai virgulti di Forza Italia, una “biblioteca dei sogni” – aspettativa borgesiana, tremontiana per eccellenza – la sua è dura pratica quotidiana nel “mundus furiosus” che, nella stessa occasione,  sbandierò davanti ai piccoli berlusconiani. Se lo aspetta uno scontro televisivo con D’Alema, certo vi si reca con gusto; se sa di dover recare notizie capaci di procurare risentimenti, Letta si muove con personale dispiacere.
In questo ha avuto fortuna, Silvio – nei collaboratori intelligenti, non nella servitù che prova, come le serve di Genet, il suo doppiopetto quando lui smonta per un momento la guardia. Concede al genio il suo riconoscimento del genio – da pari a pari. E al prezioso dono di Dio all’italica nazione, una lieve certezza: di averlo fatto lui, in prima persona, tanto graditissimo regalo.


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