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Etimologia di una crisi

Gli ingredienti originari della crisi, tutti americani, sono (almeno) quattro:

• una politica monetaria molto espansiva negli Stati Uniti fin dai primi anni Novanta, la quale per una serie di circostanze favorevoli – essenzialmente l’irruzione sul mercato mondiale dei prodotti manifatturieri e dei lavoratori cinesi a basso costo – non si è tradotta nell’aumento dell’inflazione, ma in quello dei prezzi dei corsi azionari e delle case e dell’indebitamento delle famiglie, il cui tasso di risparmio è diventato negativo dal 2004; quando si sono manifestati i primi scossoni dell’instabilità, con la crisi dei titoli dot.com, per evitare troppi danni all’economia dall’esplosione della “bolla” dei prezzi azionari la Federal Reserve ha reagito con politiche ancora più espansive, alimentando la bolla immobiliare e diventando prigioniera dei mercati;
• un allentamento delle regole sull’intermediazione, basato sulla convinzione che – una volta assicurata la stabilità del sistema bancario e protetti i depositanti al dettaglio – il sistema finanziario non avesse bisogno di altre regole e si farebbe da sé; il risultato è che le banche d’investimento si sono messe a operare come hedge fund, prendendo enormi rischi in proprio senza adeguati presidi di capitale; le società di assicurazione e le stesse banche d’investimento hanno anche preso a emettere fiumi di credit default swaps (Cds) senza né adeguata valutazione dei rischi assunti, né adeguati presidi di capitale; questi intermediari, e le loro creature per il collocamento degli strumenti strutturati, hanno utilizzato in modo smodato la leva finanziaria per moltiplicare i rendimenti sul capitale;
• un crescente deterioramento degli standard di credito, soprattutto, ma non solo, per i mutui immobiliari, in larga parte “guidato” dalle due grandi agenzie parapubbliche dei mutui immobiliari, Fannie Mae e Freddie Mac, sottoposte a forti spinte politiche a prestare “per dare una casa a tutti gli americani”;
• infine, la creazione di una fabbrica di alti rendimenti, in un contesto di bassi tassi d’interesse, utilizzando come materia prima i prestiti immobiliari – inclusi quelli di peggior qualità, che portavano perciò rendimenti elevati – e costruendo sopra di essi una piramide di strumenti strutturati sempre più complessi, nominalmente ad alto rendimento, resi attraenti da rating compiacenti.
La caratteristica centrale di questo sistema d’intermediazione – che è stato denominato “sistema bancario ombra” – è la progressiva perdita della capacità di valutare i rischi di credito: perché gli originatori dei prestiti ipotecari e degli strumenti costruiti sopra di essi se ne liberavano subito dopo, cedendoli a terzi che li trasformavano in altri strumenti finanziari negoziabili e di nuovo li cedevano, in una catena nella quale l’incentivo al monitoraggio del credito originario era scarsissimo; e perché gli strumenti complessi creati per le cartolarizzazioni non avevano mercati organizzati di riferimento e venivano valutati essenzialmente attraverso modelli matematici poi rivelatisi fallaci.
La diffusione
al sistema bancario europeo
Le banche europee hanno partecipato al gioco essenzialmente come acquirenti dei prodotti cartolarizzati, i quali sulla carta promettevano elevati rendimenti altrimenti non facilmente ottenibili, e come acquirenti di prodotti derivati, in primis i Cds, i quali consentivano di ridurre i requisiti di capitale. Questi strumenti e altre tecniche di “mitigazione dei rischi” hanno consentito un fortissimo aumento della leva finanziaria, pur nel rispetto dei requisiti di capitale imposti dai criteri di Basilea; una quota notevole di tali passività è stata raccolta a breve termine sul mercato monetario all’ingrosso. Così, quando la crisi è arrivata in Europa, le prime dieci banche europee per dimensione dell’attivo mostravano un valore medio del rapporto tra passività totali e capitale intorno a trenta, con punte di cinquanta (Deutsche Bank) e anche sessanta (Barkleys).
La crisi finanziaria si è diffusa in Europa – più che per le perdite in strumenti “tossici”, pure notevoli – essenzialmente attraverso due canali. Il primo è stato l’inaridimento del mercato monetario all’ingrosso dopo il fallimento di Lehman Brothers – il vero, colossale errore di policy che ha trasformato la crisi americana in una crisi bancaria globale. Il secondo è stato la consapevolezza, emersa dopo il fallimento di Aig, che le banche europee erano non solo molto indebitate, ma anche esposte a causa di gigantesche operazioni di copertura dei rischi di valore opinabile.
L’avvio tumultuoso del processo di deleveraging – la riduzione dell’eccesso d’indebitamento – ha fatto emergere la fragilità di alcune banche, particolarmente laddove erano state compiute costose acquisizioni nella fase di picco dei prezzi. I fallimenti e i salvataggi hanno finito di erodere la fiducia reciproca delle banche, che hanno quasi cessato di farsi credito sul mercato interbancario.
 
L’approccio americano
ai salvataggi bancari
I salvataggi – da Bear Sterns, a Fannie Mae e Freddie Mac, Aig, e poi Washington Mutual e Wachovia – sono stati affrontati dal governo americano non solo caso per caso, ma con notevoli e incomprensibili differenze di trattamento. Ad esempio, in certi casi gli azionisti hanno perso tutto, in altri sono stati solo diluiti; talora i creditori sono stati garantiti, talora hanno perso tutto o quasi tutto. Talora il governo, o l’agenzia pubblica intervenuta in sua vece, ha garantito le perdite future all’acquirente fino a un tetto massimo (Bear Sterns), talora si è assunto l’impegno a coprire le perdite oltre un ammontare massimo (Wachovia). Nel caso di Lehman, si è semplicemente lasciata fallire la banca, con devastanti conseguenze sistemiche.   
A un certo punto è divenuto evidente che questo approccio piecemeal stava diventando esso stesso causa d’incertezza e sfiducia. Così è nato il piano Paulson, centrato sull’idea di fermare la caduta dei prezzi degli strumenti finanziari legati ai mutui immobiliari attraverso un programma mirato di acquisti pubblici. L’idea, avanzata originariamente da Paul Volcker, già presidente della Federal Reserve nei primi anni Ottanta, e da Luigi Spaventa, ricalca l’esperienza dei “Brady bonds” utilizzati negli anni Ottanta per affrontare la crisi del debito dell’America latina: si tratta in pratica, seppure con tecniche diverse, di trovare il modo di rimuovere dai bilanci delle banche i titoli “tossici”, di cui al momento il mercato non riesce a determinare un prezzo e che alimentano i timori di perdite sempre più grandi delle banche, sostituendoli con titoli liquidi o liquidità.
Un problema tecnico di non facile soluzione è costituito dalla determinazione del prezzo di acquisto dei titoli tossici: se il Tesoro paga troppo poco, le banche falliranno comunque; se paga troppo, guadagneranno le banche, ma perderanno i contribuenti. La tesi del presidente Bernanke della Federal Reserve è che vi sarebbe un prezzo intermedio tra i due capace di rafforzare i bilanci delle banche senza troppo danno per i contribuenti, che a scadenza potrebbero guadagnarci; e che questo prezzo potrebbe essere “scoperto” con appropriati meccanismi d’asta. In particolare, si è scelto il meccanismo dell’asta “invertita” – nel quale il prezzo viene proposto dal venditore e il compratore, il Tesoro, decide se comprare; quindi, le banche competono al ribasso per liberarsi dei titoli tossici. Tuttavia, l’elevata eterogeneità dei titoli da acquistare rende incerto il funzionamento del meccanismo escogitato. 
Il meccanismo di acquisto distingue le banche indebolite, ma ancora in grado di funzionare, da quelle che hanno perso l’accesso al mercato del credito. L’asta si applicherà solo alle prime, senza sanzione per la partecipazione; per le seconde, invece, il Tesoro procederà direttamente all’acquisto dei titoli tossici e applicherà adeguate “punizioni” al management (tetto alle retribuzioni, eventualmente sostituzione) e agli azionisti (sospensione del pagamento dei dividendi).
Emerge qui una distinzione concettualmente importante: se vi sono errori gestionali, management e azionisti dovrebbero pagare un prezzo; ma se si tratta di una crisi di fiducia che colpisce indiscriminatamente le banche, allora occorre offrire sostegni generalizzati, senza troppe condizioni. Il problema è che nella pratica degli interventi l’atteggiamento dei policy maker appare ambiguo: quando devono in concreto intervenire a sostegno di una banca, essi tendono a identificare ogni situazione di debolezza con errori gestionali; ma appena la crisi si acuisce, offrono a gran voce interventi incondizionati. 
Ma la critica fondamentale allo schema di Paulson è un’altra: se il problema da risolvere per ridare fiducia al mercato è quello dell’insufficiente capitalizzazione delle banche, allora l’acquisto dei titoli tossici è una strada indiretta e complicata, paradossalmente più efficace quanto più il Tesoro paga un prezzo eccessivo. Per questo molti analisti ritengono preferibile intervenire direttamente a ricapitalizzare le banche.
Come si vedrà, questa è appunto la strada presa dalle autorità europee. Anche il Tesoro americano si è ora incamminato sulla stessa strada, riservando una parte dei fondi messi a disposizione dal Congresso a interventi diretti nel capitale delle banche e procedendo immediatamente a una ricapitalizzazione – formalmente volontaria, ma di fatto imposta alle maggiori nove banche americane – senza abbandonare il programma di acquisto dei titoli tossici.
 
L’approccio europeo
ai salvataggi bancari
Le autorità europee si sono a lungo illuse che la crisi finanziaria non le riguardasse e fosse essenzialmente un problema americano; l’illusione è caduta al principio di ottobre, dopo i salvataggi in rapida successione di Fortis, Bradford & Bingley, Dexia e Hypo Real Estate e il tracollo del sistema finanziario islandese. Inizialmente, ogni Paese ha cercato di fare da sé, annunciando in ordine sparso misure non coordinate di garanzia dei depositi bancari e intervenendo senza tanti riguardi a sostegno delle proprie banche in difficoltà. In alcuni casi le autorità nazionali hanno direttamente nazionalizzato le proprie banche in difficoltà (es. Bradford & Bingley nel Regno Unito e le operazioni olandesi di Fortis). Le proposte di istituire un fondo europeo d’intervento, presso la Banca europea degli investimenti (Bei) furono bloccate dalle autorità tedesche, sempre timorose di dover pagare il conto delle crisi degli altri e ancora convinte che la crisi avrebbe lasciato indenne il sistema bancario tedesco.  
Dopo le riunioni inconcludenti dei quattro maggiori Paesi europei a Parigi (il 4 ottobre) e del Consiglio Ecofin a Bruxelles (il 7 ottobre), i mercati finanziari europei mostrarono segni di una caduta generalizzata della fiducia; solo allora anche le autorità tedesche si convinsero dell’esigenza ineluttabile di agire in concerto con gli altri e di intervenire con un insieme coordinato di misure. Intanto, l’8 ottobre le maggiori banche centrali del mondo attuarono una riduzione concertata dei tassi d’intervento – anche se solo di mezzo punto percentuale. Il 10 ottobre il Gruppo dei Sette, riunito a Washington, annunciò l’intenzione di adottare misure coordinate tra l’amministrazione americana e gli altri maggiori Paesi.
Si è giunti così alla riunione dei Capi di Stato e di governo dei Paesi dell’area euro, estesa anche al Regno Unito, i quali domenica 12 ottobre decisero interventi concertati finalmente adeguati alla gravità della situazione. Il 16 ottobre il Consiglio europeo ha confermato le decisioni per tutti i ventisette Paesi dell’Unione.
L’impostazione seguita era in realtà quella delle misure di sostegno introdotte il martedì precedente dal Regno Unito, articolate su tre strumenti:
• l’intervento pubblico nel capitale delle banche;
• la garanzia pubblica ai nuovi prestiti delle banche;
• il rafforzamento delle garanzie pubbliche ai depositanti, con un target di almeno 100.000 euro in tutti i Paesi.
Contemporaneamente a tali misure, la Bank of England e la Bce annunciarono massicci ampliamenti delle facility di rifinanziamento delle banche.
L’8 di ottobre il governo inglese aveva anche annunciato che le otto maggiori banche e building societies avevano deciso di partecipare in uno schema di rafforzamento del loro capitale, sostenuto con l’iniezione di 25 miliardi di sterline di fondi pubblici.   
Il lunedì successivo, 13 ottobre, i principali governi europei diedero seguito alle decisioni dei Capi di Stato dell’euro-sistema attraverso decisioni separate, con diverse varianti negli ammontari di fondi pubblici mobilitati, nelle garanzie offerte ai prestiti delle banche e ai depositanti, nella misura e nelle modalità d’intervento nel capitale delle banche. Come già nel caso americano, gli interventi pubblici includono generalmente dei vincoli sulla distribuzione dei dividendi e sulla remunerazione del management. Come si è già ricordato, le misure europee convinsero anche l’amministrazione americana a modificare in parte il proprio approccio.
Tuttavia, qualche debolezza nell’impostazione europea rimane, essenzialmente a causa dell’approccio Paese per Paese.
L’intervento ha lasciato in ombra una questione centrale, che era all’origine della proposta di creare un fondo europeo d’intervento, originariamente sostenuta dai governi francese, italiano, e olandese, ma poi bloccata dal governo tedesco: la questione della ripartizione degli oneri in caso di perdite ingenti di una grande banca europea cross-border. Inoltre, resta irrisolto il problema di eventuali interventi a sostegno di Paesi meno sviluppati o di minori dimensioni – particolarmente, ma non solo, quelli dell’Est europeo – che non hanno risorse di bilancio adeguate alle potenziali perdite delle banche operanti entro i propri confini, come il caso islandese ben mostra. Infine, nella generalità dei casi i governi hanno preferito impegnare risorse tratte direttamente dai bilanci pubblici, pur in presenza di disavanzi già elevati e, in qualche caso, vicini ai limiti del Patto europeo di stabilità e crescita.
La creazione di un fondo europeo avrebbe dato risposta a tutti questi problemi. Infatti, i fondi necessari avrebbero potuto essere raccolti sul mercato dei capitali attraverso l’emissione di obbligazioni “europee” garantite dagli Stati membri, senza oneri immediati per i bilanci pubblici degli Stati. Solo in seguito, al momento della liquidazione del Fondo con il rimborso delle obbligazioni, si sarebbero accertate perdite e guadagni, naturalmente ripartendoli in proporzione ai depositi o al capitale delle banche interessate dagli interventi di sostegno – in modo da far pagare a ogni Stato le perdite delle sue banche di pertinenza.
La creazione di un fondo europeo d’intervento, inoltre, avrebbe avuto il vantaggio addizionale di offrire piena garanzia di copertura a tutti i depositanti (e creditori) delle banche dell’Unione, eliminando ogni rischio di perdite.
Un’altra questione che non ha trovato soluzione uniforme è quella dell’approccio ai salvataggi: se cioè s’intenda ricapitalizzare tutte le banche maggiori, innalzandone il rapporto di capitalizzazione, come hanno fatto, oltre agli americani, anche gli inglesi e i francesi; oppure se intervenire solo al manifestarsi di difficoltà di specifici istituti, come ad esempio ha fatto da ultimo il governo olandese con il suo intervento di ricapitalizzazione del Gruppo bancario-assicurativo Ing. Anche l’Italia sembra per ora schierata in questo secondo gruppo, ma la sua posizione sta evolvendo alla luce delle persistenti pressioni sui titoli bancari; essa anche è l’unico Paese a non aver annunciato l’ammontare delle garanzie e degli interventi nel capitale previsti, probabilmente per evitare un peggioramento nell’outlook sul debito pubblico. I tedeschi hanno seguito una via intermedia: intervenendo nel capitale delle banche in maniera selettiva al manifestarsi di difficoltà, e applicando in tal caso vincoli ai dividendi e alla remunerazione del management; ma offrendo garanzie indifferenziate e incondizionate sulla raccolta di fondi con strumenti di debito.
La questione, come già accennato, non è di minore importanza, dato che l’intervento caso per caso – che in effetti può solo avvenire dopo che il management ha riconosciuto di non poter continuare da solo – può comportare uno stigma per l’istituzione coinvolta e, dunque, avere l’effetto di ritardare l’emergere di singole situazioni di crisi, mantenendo perciò il mercato in una situazione di incertezza. Inoltre, esso apre la porta a interventi discrezionali delle autorità politiche in singole banche, certamente non desiderabili.
 
Le conseguenze probabili:
una profonda recessione
La crisi bancaria è probabilmente in attenuazione – anche se nuovi errori di policy, quale fu la decisione di lasciar fallire Lehman Brothers, possono di nuovo scatenare la paura. I mercati azionari però continuano a precipitare. L’andamento dei corsi pare ora influenzato essenzialmente dalle cattive notizie sull’evoluzione dell’economia reale e, negli Stati Uniti, dall’andamento del mercato immobiliare: una stabilizzazione dei corsi è ipotizzabile solo dopo che si sarà arrestata la caduta dei prezzi delle case, dai quali dipendono le perdite sui titoli legati ai mutui immobiliari, diffusi nei bilanci delle banche di tutto il mondo.
Serie conseguenze di quanto è avvenuto sull’economia reale appaiono inevitabili: infatti, dopo anni di caduta della propensione al risparmio, grazie al credito facile, ora vi sarà un forte ridimensionamento dei consumi, negli Stati Uniti e in molti altri Paesi.
Il peggioramento della crisi finanziaria è una diretta conseguenza della bolla del credito, che aveva consentito agli Stati Uniti di vivere largamente al di sopra dei propri mezzi per un periodo prolungato. Se s’ipotizza che la propensione al risparmio debba ritornare almeno su valori del 4-5 per cento del reddito disponibile, la recessione potrebbe assumere dimensioni comparabili a quella seguita al primo shock petrolifero, con una caduta del pil di qualche punto percentuale. L’intensità del fenomeno dipenderà in parte anche dal processo di deleveraging e dal ritorno di standard di credito più severi, che limiteranno la disponibilità di credito all’economia.
L’Europa – dove la scarsa dinamica della domanda interna è stata tradizionalmente compensata dal contributo positivo alla crescita delle esportazioni nette. Le attese di domanda in caduta e il razionamento del credito hanno già depresso in maniera molto intensa la domanda di autoveicoli privati e industriali; anche la domanda di acciaio e altri prodotti dell’industria di base appare in forte ridimensionamento. Anche i Paesi asiatici e i Paesi produttori di materie prime risentiranno della caduta della domanda nei Paesi avanzati – dopotutto Stati Uniti, Europa e Giappone rappresentano insieme oltre il sessanta per cento del prodotto mondiale. In effetti, i prezzi delle materie prime hanno registrato cali del 50 per cento nell’ultimo mese.
La profondità e la durata della recessione saranno influenzate in maniera importante dalle risposte di policy alla crisi nelle diverse aree del mondo.
I rischi di un freno
alla globalizzazione
A livello globale, il vero pericolo è quello di un arretramento della libertà dei commerci a seguito di un innalzamento delle barriere doganali. Ad esempio, negli Stati Uniti il candidato democratico ha annunciato l’intenzione di imporre standard ambientali e di lavoro rafforzati negli accordi commerciali con i Paesi emergenti, che possono tradursi in restrizioni commerciali contro i Paesi emergenti – i quali certamente reagirebbero. D’altronde, i Paesi in via di sviluppo hanno ampi margini per innalzare le tariffe, non avendo finora sfruttato appieno i limiti massimi di tariffazione consentiti dal Wto; alcuni Paesi esportatori avevano introdotto vincoli all’esportazione di materie alimentari nella fase acuta della scarsità e dell’aumento dei prezzi. Il Doha Round è bloccato per l’indisponibilità dell’Unione europea e degli Stati Uniti ad accettare maggiore libertà nel commercio di prodotti agricoli, dei Paesi in via di sviluppo ad aprire lo scambio dei servizi. Senza una ripresa della cooperazione multilaterale, il rischio di un’involuzione non appare trascurabile: ma non è chiaro chi potrebbe assumere la leadership nella promozione di nuovi accordi, dato l’evidente indebolimento della capacità degli Stati Uniti di guidare il processo e la tradizionale posizione difensiva sempre assunta in queste questioni dall’Unione europea, preoccupata di difendere la protezione agricola.
La regolamentazione dei mercati finanziari dovrà essere rivista, alla luce dei danni vistosi imposti ai contribuenti e ai risparmiatori, dai comportamenti del sistema finanziario. Vi sono pericoli non indifferenti di un’evoluzione perversa della regolamentazione dei mercati finanziari, con il ritorno di chiusure e vincoli che potrebbero aggravare la recessione e ritardare la ripresa delle economie. Un arretramento nella libertà di movimento dei capitali frenerebbe gli investimenti diretti e i trasferimenti di tecnologia.
In effetti, quasi ovunque monta il risentimento verso il mondo della finanza americana e anglo-sassone in generale, che aveva guidato il processo di liberalizzazione e d’innovazione finanziaria, ma che ora trascina nel crollo l’economia globale. L’evidente discrasia tra finanza globale e organizzazione nazionale della regolamentazione e della supervisione può evolvere verso un rafforzamento della cooperazione sovranazionale, ma anche nella direzione contraria di sistemi di regolazione più restrittivi a livello nazionale. In Europa, alcuni governi hanno indicato l’intenzione di restringere la contendibilità delle società quotate e di frenare l’accesso dei capitali dall’estero: cercando di proteggere equilibri proprietari interni senza respiro, sembrano inconsapevoli dei costi che ciò comporta per l’investimento e la crescita.
La tensione tra globalizzazione e politiche nazionali ruota intorno alla questione dell’autonomia delle politiche nazionali, in particolare nel campo redistributivo. La concorrenza dei prodotti dei Paesi emergenti comprime i salari dei lavoratori meno qualificati nei Paesi avanzati; la mobilità dei capitali frena la possibilità di correggere le ineguaglianze nella distribuzione del reddito attraverso il bilancio pubblico, dato che livelli di tassazione più elevata allontanano gli investimenti.
Il problema è aggravato dall’apparente instabilità dei flussi di capitale: lunghi periodi nei quali i mercati internazionali sostengono largamente disavanzi pubblici e incrementi dei redditi interni eccessivi sono poi seguiti da violenti e dolorosi aggiustamenti, quando la fiducia viene meno e i capitali fuggono. L’arrivo inevitabile del Fondo monetario impone allora proprio le politiche di austerità che i finanziamenti generosi dall’estero avevano illuso si potessero evitare, di nuovo alimentando risentimenti contro quella che viene percepita come una ricetta spietata imposta dall’esterno.
In realtà, questi problemi sarebbero gestibili, ma richiedono risposte complesse a livello nazionale, che non sempre i governi hanno la capacità di progettare e attuare. L’Unione europea, ad esempio, ha sviluppato le sue risposte attraverso la cd. agenda di Lisbona, centrata sull’investimento in capitale umano e l’aumento della flessibilità dei sistemi economici. Il successo economico dei Paesi nordici europei a elevata tassazione conferma che la qualità della spesa pubblica può almeno in parte controbilanciare gli effetti avversi della tassazione elevata sulla flessibilità e il dinamismo dei sistemi economici. L’esperienza degli ultimi anni del Brasile conferma che politiche finanziarie equilibrate non sono incompatibili con tassi elevati di crescita e la riduzione delle disuguaglianze anche in Paesi con forti squilibri distributivi e vaste aree di povertà. Nei Paesi emergenti asiatici l’investimento in educazione e capitale umano si è rivelato il più efficace antidoto contro la povertà e le diseguaglianze.
Invece, nei Paesi europei a elevata spesa pubblica ed economie più rigide, le difficoltà di riformare le strutture economiche e di assistenza sociale conducono all’emergere di tendenze populiste e protezioniste. Si rivendica la superiorità della politica per mascherare l’incapacità di affrontare le resistenze corporative che impediscono di affrontare con successo le sfide della globalizzazione; si rincorre l’illusione di politiche industriali e interventi diretti dello Stato capaci di creare sviluppo senza rimuovere le inefficienze che ostacolano l’investimento privato.
Il fatto è che chiudersi per evitare il cambiamento non aiuterebbe molto: i costi dell’autarchia e della protezione sono certamente più elevati di quelli da sopportare per affrontare con successo le sfide della globalizzazione.
 
Verso una nuova governance
dei mercati finanziari e dei cambi
La crisi devastante che stiamo vivendo è dovuta per parte importante a difetti e lacune del sistema di regolazione dei mercati finanziari; i regolatori che dovevano sorvegliarne l’evoluzione hanno vistosamente fallito. Più in generale si pongono questioni di governance globale dei mercati di capitale e dei cambi.
Vi è anzitutto l’esigenza di rivedere le regole di prestazione dei servizi finanziari e i meccanismi di sorveglianza sui mercati.
Ciò cui abbiamo assistito negli Stati Uniti, con colossali ricadute globali, è un esperimento di free banking, il quale ancora una volta – dopo l’esperienza delle crisi bancarie prima della creazione delle banche centrali e dei meccanismi di assicurazione dei depositi – si è rivelato un sistema instabile. Va sottolineato che l’esperimento non è venuto per caso, ma è stato voluto per esplicita scelta di policy dei regolatori americani – sotto l’influenza dominante di Alan Greenspan e di una sequela di ministri del Tesoro tratti dai ranghi di Wall Street.
La loro tesi di fondo era che i mercati nei quali si scambiano strumenti finanziari tra gli operatori sofisticati non richiedono di essere regolati: dunque, le banche di investimento, gli hedge funds, le società di private equity hanno potuto operare liberamente, senza requisiti di capitale né regole prudenziali, creando una molteplicità di strumenti di investimento e di trasferimento del rischio tailor made, scambiati over the counter (Otc), cioè fuori dei mercati regolamentati e senza meccanismi di clearing e di accentramento dei rischi di controparte. Le conseguenze di questa scelta sono state due:
• l’enorme aumento del grado di leverage del sistema, utilizzato spregiudicatamente per moltiplicare gli utili di una base azionaria sempre più ristretta – si pensi che tra il 2003 e il 2007 le operazioni di buy-back di azioni proprie a Wall Street delle società dell’indice S&P 500 sono ammontate a 1700 miliardi di dollari, invero una straordinaria manipolazione dei prezzi delle azioni stesse; 
• la creazione, attraverso gli strumenti derivati, di una fitta ragnatela di relazioni opache tra istituzioni finanziarie – attraverso le cartolarizzazioni, i veicoli “speciali” (cioè, fuori bilancio) di investimento e gli strumenti derivati – i quali, quando le cose hanno incominciato ad andar male, si sono rivelate un potentissimo amplificatore delle perdite.
Quando i prezzi degli strumenti finanziari legati ai mutui immobiliari hanno incominciato a cedere, è divenuto evidente che il sistema non aveva strumenti né per la valutazione degli strumenti di investimento che aveva creato, né per il controllo dei rischi. In particolare, avevano fallito, in questo ruolo, le agenzie di rating, troppo sbilanciate nelle loro valutazioni a favore degli emittenti dei titoli cartolarizzati, che erano diventati la fonte principale delle loro entrate.
Anche la tesi secondo cui i risparmiatori meno sofisticati non avrebbero sofferto degli errori degli operatori sofisticati si è rivelata illusoria. Da un lato, gli strumenti rischiosi sono stati acquistati a piene mani da fondi pensioni e altri fondi di investimento; inoltre, il fallimento di Lehman ha comportato perdite anche sui fondi monetari e sulle polizze di assicurazione index-linked distribuiti a piccoli risparmiatori in giro per il mondo. Dall’altro lato, la lunga fase di euforia ha visto il ritorno massiccio dei mutui a tasso variabile, venduti a piene mani dalle banche a famiglie a basso reddito – che ora devono fronteggiare aumenti insostenibili degli oneri per il servizio del debito.
Si può ricordare al riguardo che una delle misure promosse dal presidente Roosevelt dopo la Grande Depressione fu la creazione di agenzie pubbliche che promossero, oltre all’allungamento delle scadenze, l’abbandono dei tassi variabili nei mutui immobiliari – che avevano condotto molte famiglie americane a perdere la casa.
Alcune caratteristiche dei sistemi di regolamentazione hanno amplificato l’instabilità, incoraggiando l’assunzione dei rischi nella fase ascendente della bolla e accentuando le perdite e le liquidazioni di asset nella fase discendente. Il fabbisogno di capitale di vigilanza – i quali secondo gli accordi cd. di Basilea si basano su una misura ponderata del rischio delle attività bancarie – diminuiscono quando i prezzi delle attività aumentano e crescono quando i prezzi cadono. Si è già visto, inoltre, come le banche abbiano aggirato i requisiti di capitale, utilizzando Cds e rating per manipolare le complicate formule di calcolo dei requisiti di capitale.
Allo stesso modo, il criterio del fair value degli standard contabili Ias è stato interpretato nel senso di imporre il continuo aggiustamento ai prezzi di mercato delle valutazioni di bilancio – mark-to-market. Ciò faceva comodo alle istituzioni finanziarie quando i corsi salivano, che immediatamente riducevano il capitale al servizio delle proprie operazioni; ma quando i corsi hanno iniziato a calare, altrettanto rapidamente i requisiti di capitale hanno preso a salire, forzando continue iniezioni di capitale che era sempre più difficile reperire sul mercato. L’organismo internazionale che formula gli standard contabili, lo Iasb, e la Commissione europea già si sono mossi per limitare questi effetti perversi, introducendo maggior flessibilità nell’applicazione del fair value; il costo è l’aumento dell’incertezza sullo stato dei bilanci agli occhi degli investitori.
La discussione sulle nuove regole è appena incominciata: certamente essa condurrà a estendere la regolamentazione alle attività finora non coperte, a innalzare i requisiti di capitale, rendendoli al contempo meno pro-ciclici – ad esempio, secondo il modello spagnolo di regolamentazione, il quale prevede un innalzamento backward-looking dei requisiti di capitale quando la creazione di credito accelera – a standardizzare gli strumenti derivati e rafforzare la trasparenza dei trasferimenti dei rischi, anche creando meccanismi di clearing e controparte centrale. Inoltre, mentre il ritorno alla separazione tra attività di banca commerciale e di banca d’investimento non sembra praticabile, è probabile che si rafforzino i requisiti regolamentari specifici sulle attività di banca d’investimento, dove le chinese walls informative non hanno funzionato e i conflitti d’interesse sono apparsi colossali, con grave danno per investitori e risparmiatori.
Occorrerà anche mettere un freno alla possibilità di emettere strumenti di assicurazione, quali i Cds, senza né riserve adeguate di capitale, né strumenti obiettivi di valutazione della distribuzione dei rischi. Così come bisogna decidere come intervenire sulle agenzie di rating: mentre alcuni – inclusa la Commissione europea – pensano a imporre nuove regole per rafforzarne la trasparenza e l’indipendenza, altri si propongono di eliminare dalla regolamentazione ogni riferimento alle agenzie, riportando dunque completamente agli investitori e agli intermediari la responsabilità della valutazione dei rischi. Le agenzie potrebbero allora operare come dei consulenti privati, ma senza una “privativa” assicurata grazie alla regolamentazione.
Infine, è assolutamente chiaro che un sistema finanziario globalizzato richiede strutture sovranazionali per la supervisione e per la gestione delle crisi, del quale al momento esistono solo pochi e deboli tasselli: i comitati europei di regolamentazione, che però non hanno poteri legali, e il Financial stability forum del Fmi, anch’esso senza incisivi poteri.
Anche la questione del coordinamento delle autorità nazionali negli interventi di sostegno delle banche nelle fasi acute della crisi è stata risolta con accordi ad hoc – e quelli tra le banche centrali hanno indubbiamente mostrato grande efficacia – ma non può essere considerata una soluzione soddisfacente, se prima di arrivare alle decisioni comuni siamo giunti sull’orlo del precipizio del dissolvimento del sistema bancario internazionale.
Resta l’esigenza cruciale di un rafforzamento della vigilanza sui gruppi bancari globalizzati. In materia, da questo lato dell’atlantico appare debole la proposta della Commissione europea di istituire Collegi dei supervisori sui gruppi bancari transnazionali dell’Unione, perché continuerebbe a non esistere un unico luogo di raccolta e analisi delle informazioni su tali gruppi necessarie a impedire crisi sistemiche e a predisporre rimedi adeguati.
Quale che sia l’equilibrio delle nuove regole, si dovrà evitare – come si dice sempre – di gettare il bambino con l’acqua sporca. È concreto il pericolo che la lunga fase di lassismo nelle regole e nei controlli sia seguita da una fase di regole troppo restrittive, con dannose conseguenze sull’innovazione finanziaria e sulla disponibilità di finanziamenti per l’economia. Certamente, non dovrà più accadere che un solo Paese detti le regole dalle quali dipende la stabilità dell’intero sistema finanziario mondiale, per giunta sotto dettatura degli stessi interessi regolati.
Prima di concludere, merita un breve commento la questione – da molti sollevata con l’etichetta di una nuova Bretton Woods – della ricerca di assetti più stabili nel regime di cambio e di governance multilaterale delle relazioni tra le grandi aree valutarie del mondo. La questione naturalmente è assai complessa e non può essere affrontata qui in maniera esauriente. Si può notare, tuttavia, che i grandi squilibri finanziari hanno trovato origine, come già nel sistema originario di Bretton Woods, nel mantenimento di tassi di cambio rigidi tra gli Stati Uniti e le economie asiatiche emergenti – cosicché, invece di promuovere la correzione degli squilibri, il sistema di cambio è divenuto per le aree asiatiche un moltiplicatore delle politiche monetarie espansive americane, mentre i disavanzi americani trovavano facile finanziamento negli avanzi commerciali con quelle aree.
In altre parole, si è replicato un sistema nel quale il Paese emittente la valuta di riserva, ancora il dollaro, era sottratto a ogni disciplina finanziaria; le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. L’Unione europea si è potuta sottrarre a quelle politiche monetarie destabilizzanti grazie al cambio flessibile dell’euro, anche se ciò ha comportato costi non indifferenti per i suoi esportatori.
Dunque, la discussione generale che si proporrà – se e quando si ricomincerà a discutere di regimi di cambio – non è quella di ritornare a un regime di cambio più rigido tra le grandi aree valutarie. Al contrario, tali aree hanno caratteristiche economiche strutturali troppo differenti per poter immaginare di vincolarle rigidamente attraverso il cambio. Invece, si dovrà porre il problema di vincolare anche i Paesi a valuta di riserva a comportamenti di stabilità finanziaria, anzitutto attraverso gli strumenti del bilancio pubblico e della politica monetaria.
Il mantenimento di disavanzi e avanzi commerciali con l’estero insostenibili dovrebbe essere scoraggiato; l’aggiustamento correttivo del cambio dovrebbe essere accompagnato da appropriate variazioni delle politiche interne di domanda aggregata.
Per seguire questi semplici principi di stabilità non servono nuove istituzioni; basta ricostruire il consenso su pochi principi comuni per la gestione delle politiche macroeconomiche e dei cambi, come si fece nei primi anni Ottanta, dopo la grande instabilità seguita negli anni Settanta alla transizione ai cambi flessibili – instabilità anche allora dovuta alle politiche instabili degli Stati Uniti. Anche la Cina, oltre agli Stati Uniti, dovrà partecipare alla scrittura delle regole e rispettarle come tutti gli altri Paesi.
Il Fmi può giocare un ruolo centrale nell’attuazione di questo disegno come gestore e garante del processo di sorveglianza multilaterale solo se si verificano due condizioni:
• che la governance del Fmi stesso sia adattata per dare un peso adeguato ai Paesi emergenti;
• che i meccanismi di sorveglianza multilaterale siano capaci di generare sufficiente pressione su tutti i partecipanti, anche i Paesi maggiori.
Non si tratta di problemi nuovi né di soluzioni nuove: si tratta soprattutto di adattare i meccanismi decisionali a mutati equilibri economici e finanziari tra le grandi aree del mondo, una realtà nella quale la posizione dominante di un solo Paese non è più né giustificabile, né sostenibile.


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