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Il futuro è color verde

“Dove sono i lecca-lecca nello sviluppo sostenibile?”. Se lo chiedeva nel 1988 un non meglio identificato politico canadese, forse alla ricerca, vana in quegli anni, di qualcosa che decretasse il lato attraente, godibile e, magari, un po’ artificiale della “green economy”. Della stessa ricetta, quindi, che oggi ha dato il via al “cammino planetario verso un’economia a bassa intensità di carbonio”, un’economia colorata di verde: appunto, green economy. Formula rassicurante – il verde non ha mai fatto male a nessuno! – per definire un sistema di “innovazione sociale” chiamato a rappresentare un “nuovo modo e stile di vita”. L’economia “decarbonizzata” impone l´eco, consuma meno energie da fonti fossili, emette meno gas serra, assorbe CO2 e, in sostanza, contribuisce a raggiungere gli obiettivi del Protocollo di Kyoto. Ancora: punta ad essere al 100% aperta, partecipativa, autentica, etica, trasparente, sostenibile, equo-solidale, locale, salutista, funzionale, (persino) sensuale e conveniente, nuovo status symbol della bio elite. Tutto questo suona incredibilmente avvincente e amichevole, molto democrat e molto meno conservative.
Curioso notare come uno dei primi rapporti istituzionali a utilizzare la formula di “green economy”, nel settembre del 2007, sia stato il Blueprint for a Green Economy (Piano per un’energia verde), report realizzato dal britannico “The Quality of Life Policy Group”, fondato dall’allora leader del Gabinetto ombra, il tory David Cameron. Le 547 pagine del rapporto vennero salutate dal Guardian come il risultato di uno “strano ma interessante matrimonio tra conservatori e ambientalisti”.
Un anno dopo, nell’ottobre 2008, l’Unep – United nations environment programme – il braccio ambientale delle Nazioni Unite, lancia il Global Green New Deal insieme alla Green Economy Initiative, al tempo stesso, presentati come “antidoto contro la crisi ma anche trampolino di lancio per un’economia globale, decarbonizzata, a basso impatto ambientale e in grado di creare milioni di posti di lavoro”. Uno degli strumenti realizzati dal programma Onu, è infatti il Green Jobs report – pubblicato lo scorso settembre – che progetta investimenti per 630 miliardi di dollari entro il 2030 che si tradurrebbero in almeno 20 milioni di posti di lavoro in più, nel settore delle energie rinnovabili.
Ispirandosi alla risposta data da Roosevelt alla Grande Depressione, il “Green New Deal” si fonda, dunque, su una “nuova alleanza” tra ambiente, industria, agricoltura e sindacati per mettere gli interessi dell’economia reale al di sopra di quelli di una finanza “impazzita”. Lo spiega bene Achim Steiner, direttore esecutivo dell’Unep: “Gli investimenti in tecnologie pulite, in energia da fonti rinnovabili, in infrastrutture verdi non possono essere utilizzati esclusivamente come leva contro la recessione globale e la disoccupazione ma possono rappresentare una tappa fondamentale per una ripresa economica sostenibile del mondo”.
Lo scorso novembre, un simposio internazionale presso lo Schumacher College, in Inghilterra, a cui partecipano studiosi ed esperti di spicco dell’economia mondiale, della finanza, del settore energetico e del movimento ecologista, lancia l’idea di un grande piano di riforme per salvare il pianeta e lo affida, simbolicamente, al presidente americano eletto, Barack Obama, (chi meglio di lui?) mentre il settimanale Time, proprio in quei giorni, dedica la copertina a un rooseveltiano futuro inquilino della Casa Bianca, con il titolo “Il nuovo new Deal”.
E il 16 dicembre del 2008, Obama nomina il famoso “Green dream team” con alla testa un Nobel per la Fisica, Steven Chu. Il nuovo segretario all´Energia dell´amministrazione Obama dirige il Berkeley Lab che si propone di diventare leader mondiale nelle fonti di energia rinnovabili, ed ha il merito di aver fatto partire la costruzione di un centro scientifico – Helios – che punta a sviluppare metodi per “immagazzinare” l´energia solare sotto forma di carburante rinnovabile per i trasporti, perché è in questo settore che si giocherà una partita importante per l´innovazione tecnologica. Obama l’ha proprio detto: “Con la mia presidenza, l´America guiderà la lotta ai cambiamenti climatici, rafforzando la nostra sicurezza e creando in questo modo milioni di nuovi posti di lavoro”. Più chiaro di così! Talmente chiaro che il Nature, il 13 gennaio 2009, annuncia che la Commissione del Senato su energia e ambiente ha programmato un’audizione sulla nomina di Chu che promette di “provocare un forte scossone” all’Energy Agency!
Non solo. Per il mondo è tutto un fiorire di “Green new deal”, come Giappone e Nord Corea che il 9 gennaio hanno annunciato di avere intenzione di investire “miliardi di dollari in progetti verdi, per creare nuovi posti di lavoro”. Ma soprattutto il gigante cinese, che ormai teme l’effetto serra, tanto da scommettere sul “ritorno economico” delle nuove energie.
Insomma, è un fatto che “green” e “dream” si sposino perfettamente e non solo in fonetica. Solo un sogno, quello di un’economia decarbonizzata, dunque, o una transizione possibile? Gli Stati Uniti saranno realmente in grado, a partire dal 20 gennaio, di dismettere “l’unilateralismo” di Bush e allinearsi all’Europa, da tempo, “paladina” nella lotta al cambiamento climatico?
Per il Worldwatch Institute – organizzazione internazionale indipendente, accreditata in tutto il mondo – la transizione a un “nuovo mondo”, energeticamente più sostenibile, richiederà una vera rivoluzione globale. E sarà possibile, a patto dell’attuazione di una roadmap strategica che vada dalla transizione a un’economia basata sulle energie rinnovabili, a investimenti massicci in infrastrutture verdi (ad esempio in mezzi di trasporto elettrici e in edifici costruiti con materiali eco) per puntare sull’efficienza, che vuol dire consumare meglio e riciclare di più. Non solo: occorrerà lavorare per una più equa distribuzione di risorse economiche e tecnologiche all’interno dello stesso Paese ma, soprattutto, tra il nord e il sud del mondo. E cosa bisogna fare, secondo gli esperti del Worldwatch Institute, per tradurre in realtà questi obiettivi? Ancora molto: “Una regolamentazione più leggera, meno tasse, riforme dei sussidi, incentivi, autorizzazioni e una politica industriale ecologica”. Prendiamo l’esempio della Germania: investimenti pubblici e privati per  ristrutturare in modo eco-compatibile appartamenti ed edifici, hanno permesso di salvare o creare circa 140.000 posti di lavoro nell’arco di cinque anni. Ma un Green Deal che si rispetti dovrebbe saper conciliare misure a favore di un housing improntato a criteri ecologici per la classe media con l’esigenza primaria, dei poverissimi che vivono negli slum del mondo, di avere un tetto decente. Ci sono risorse a sufficienza da mobilitare? Questa, la domanda chiave.
La rivoluzione verde ha un enorme potenziale e i numeri parlano chiaro: in tutto il mondo, il settore delle rinnovabili, incluse le imprese fornitrici, offre lavoro a 2,3 milioni di persone. Di queste, l’eolico ne impiega 300.000, il fotovoltaico 170.000, l’industria del solare termico più di 600.000 e quella del biocarburante oltre un milione. Il punto è: cosa accadrà se gli investimenti al settore dovessero venire meno? Quanti “lavori verdi” evaporeranno, senza il sostegno massiccio dei sussidi? La crisi del settore creditizio diminuirà la propensione delle banche a investire nel settore. E il prezzo del petrolio che sul Nymex di New York ha perso i due terzi del suo valore in poco più di quattro mesi, influirà notevolmente su alcuni segmenti del mercato delle rinnovabili. New Energy finance – servizio di informazione londinese, specializzato nelle rinnovabili e negli investimenti nelle tecnologie pulite –  prevede, infatti, che gli investimenti in rinnovabili, seppur con un impatto diverso, nei prossimi mesi scenderanno.
Il prossimo appuntamento “verde” per i Paesi del mondo, dopo dieci anni di fallimenti, sarà il vertice 2009 di Copenhagen, in cui si discuteranno i nuovi accordi post-Kyoto. Sta passando la cultura, complice anche la crisi economica, che il business energetico-ambientale sia una delle direzioni obbligate da percorrere, per portare l’economia in salvo dalla tempesta che l’attraversa.
Il confronto tra Ue e Usa in campo ambientale dovrebbe vedere la vecchia Europa vincente: adesione a Kyoto, politiche virtuose, obiettivi ambiziosi. C´è tutto quel che serve per una netta leadership in campo ambientale.
Ma l’approccio top down di Bruxelles, che pone un argine alle pressioni lobbistiche dei grandi attori industriali, è un approccio che sconta molta lentezza.
Problema opposto invece negli Stati Uniti. Qui le resistenze vengono dal vertice, che fino ad oggi si è distinto per una politica di chiusura rispetto ai temi ambientali, mentre in basso, nella società, l´attenzione è cresciuta. E gli Stati Uniti potrebbero recuperare in fretta il tempo perduto da Bush, riconquistando la leadership di questa nuova rivoluzione industriale.
 
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