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Economia sociale di mercato?

Il punto di domanda, il punto interrogativo posto dopo le parole “economia sociale di mercato” non è posto per caso. È un segno significativo, significativo nella forma etimologica della “pre-occupazione”, con la funzione di risposta preventiva, rispetto ad una critica ripetitiva. Un tipo di critica, questa, che si trova da ultimo in un libro à la page. Un libro in cui si legge questa frase: “Cosa si intende con questa espressione? Non ci è mai stato spiegato cos’è l’economia sociale di mercato”.
In effetti, la formula “economia sociale di mercato” contiene in apparenza una contraddizione in termini, una “contradictio in adjecto” che sembra in essere tra il sostantivo mercato e l’aggettivo sociale. Una contraddizione tra la parola mercato, una parola che normalmente indica diritti individuali di proprietà, rapporti di scambio, effetti di utilità marginale. E l’aggettivo sociale, che invece indica ciò che è comune ad un insieme di persone.
Ciò che per alcuni è difficile, se non impossibile da capire – che l’economia possa anche essere sociale e che il sociale possa anche essere nell’economia – per altri, a partire io penso dai cattolici, nel cui nome è questa Università, per questi è più facile, e in qualche modo quasi naturale, capirlo. La contraddizione chiusa nella formula “economia sociale di mercato” non è infatti vera, ma falsa; non è ontologica, ma cognitiva; non è assoluta, ma relativa. Dipende dal modo con cui uno vede le cose. E, a questo proposito – a proposito del modo di vedere le cose – vorrei qui anticipare e semplificare.
Nel tempo presente “economia sociale di mercato” non è il tentativo di replicare esperienze politiche iniziate e fatte con grande successo in Germania a partire dal dopoguerra e poi da qui transitate e risalite fino ad oggi nei programmi dei partiti popolari europei. E non è neppure un modo per organizzare al meglio il rapporto tra il lavoro e il capitale, disponendolo per linee di composizione orizzontale, invece che di scontro verticale. O, usando parole più “moderne”, più moderne delle antiche parole lavoro e capitale, un modo per combinare insieme le “parti sociali”. L’economia sociale di mercato è certo anche questo, ma non è solo questo. L’economia sociale di mercato di cui vorrei parlare non è infatti nella dimensione sociale e funzionale del rapporto tra lavoro, capitale e parti sociali, ma è nell’essenza morale del rapporto tra l’etica e l’economia.
 
Il ruolo della rivista Ordo
Prima di avanzare su questa linea, devo per pagare un tributo a chi ha cominciato, e con molto coraggio intellettuale, a pensare in questo modo, nel tragico periodo fra le due guerre mondiali. Un tributo non al radicalismo di chi, finito il laissez faire, affermava il primato della totale discrezionalità del potere politico, tanto da scrivere “dottrine generali” – proprio così si autodefinivano – dottrine chiamate generali proprio perché fatte per essere buone tanto per le democrazie quanto per i totalitarismi, rossi o neri che fossero. È piuttosto un tributo che va pagato a chi già allora, a ridosso e nel cuore della Germania nazista, scriveva e parlava di non necessaria contrapposizione tra capitale e lavoro, di cooperazione volontaria di bene pubblico di protezione sociale, di mercato e di sociale, non come di concetti separati ma come parte di un unico concetto ispirato dall’etica. È nel 1948 che venne fondata la rivista Ordo, per rappresentare l’ordine del mercato come ordine costituzionale, incrocio e sintesi tra l’antica matrice liberale e la nuova e necessaria dimensione istituzionale; per individuare nella legge costituzionale e ordinaria il mezzo per trasferire nell’economia, attraverso il diritto, i valori superiori dell’etica. Ed è proprio nel tempo presente, nel pieno della crisi che stiamo vedendo e vivendo, che ritorna e si manifesta il carattere positivo fondamentale proprio di quella dottrina.
 
La fine dell’illusione
Nella crisi che stiamo vivendo emerge infatti la crisi di un paradigma, di un modello sociale che, nell’ultima decade, è stato dominato dall’ideologia della domanda di beni di consumo, magari superflui, meglio se comprati a debito. Crisi, perché la struttura della nostra società, presa nel parossismo del consumo e del debito, si è venuta rappresentando ed andando verso il futuro come nell’immagine dell’Angelus novus, che avanza verso la tempesta con la testa rivolta all’indietro. La crisi si manifesta quindi nella caduta del positivismo, nel folle oblio collettivo del diritto naturale. Nell’illusione che tutto potesse essere dominato da altro che non da quello che sta nell’idea del giusto ordine sociale cui costantemente si ispira anche il magistero della Chiesa. Generata dal positivismo, la separazione tra morale, diritto ed economia ha a sua volta prodotto una visione dell’uomo e della società in cui la morale non è altro che una scelta solo e irriducibilmente soggettiva. Una separazione in cui il diritto non è altro che l’esercizio di un comando da parte del detentore del potere: “justum quia jussum”. In cui l’economia non è più che un meccanismo anonimo di soddisfacimento di preferenze individuali e irrazionali: “de gustibus non est disputandum”.
Diritto morale ed economia sono stati così separati per effetto dell’unificazione in una visione positivistica e utilitaristica. E la globalizzazione ha accelerato questo processo e l’ha sublimato favorendo l’illusione che il singolo possa sempre, e sempre più, esso stesso e da solo discernere il bene dal male, senza l’aiuto della morale e della tradizione, sulla base di astrazioni pseudoscientifiche, piuttosto che sulla base della ragione storica. Come se potessero essere frantumati l’uomo, i valori, il tempo, lo spazio e la storia. In particolare c’è una dottrina che è stata presa da questa ybris. Ed è la dottrina che prende il nome di “economia”. Una dottrina che si è illusa di valutare e prevedere in vitro i fenomeni sociali, esattamente come si fa per i fenomeni naturali. L’acqua bolle a X gradi e gela a Y gradi. Algoritmi, sublimazioni di dottrine hanno portato alla situazione di crisi in cui ci troviamo.
 
Se il game non è over
È possibile usare un’immagine, per rappresentare la situazione in cui ora ci troviamo: è come vivere in un videogame. Normalmente nei videogame, quando vuoi, puoi spegnere: game is over. Diversamente, quello in cui siamo è un videogame che va avanti da solo e che non è ancora terminato. E, come nei videogame affronti un mostro, lo batti, ti stai rilassando e ne arriva un secondo, più grande del primo. Così è ora. Il primo mostro è stato quello dei subprime e in qualche modo è stato gestito; il secondo mostro è stato il collasso del mercato del credito e in qualche modo è stato gestito; il terzo mostro è stato la bancarotta delle principali istituzioni finanziarie e in qualche modo è stato gestito; il quarto mostro è stato il collasso delle Borse ed è più o meno in atto. Ma non è l’ultimo. Dietro l’angolo ci sono infatti ancora altri mostri: le carte di credito, soprattutto nei Paesi dove sono carte di debito. E poi le attese bancarotte di società, prodotte dalle difficoltà di classamento dei loro corporate bond. E infine il mostro dei mostri, quello dei “derivati”, su cui si presenta la follia del rischio incalcolabile, quello degli effetti non intenzionali ma collaterali, comunque un rischio non definibile ex ante, e non gestibile, se si concretizza. O gestibile solo con procedure che potrebbero evocare, nel dominio dell’economia, l’antica sapienza dell’anno sabbatico.
Ma cerchiamo di capire perché e come siamo entrati dentro questo videogame. La crisi, si dice, è finanziaria. Ma in realtà non è solo finanziaria. È troppo semplice definirla solo finanziaria. La crisi è reale. E nel reale è globale, per un doppio ordine di ragioni: ha certamente un’estensione globale dall’America all’Europa, dall’Asia all’America latina. Ma soprattutto è globale perché ha origine nella globalizzazione stessa. È ora abbastanza diffusa la ricostruzione degli effetti della crisi. Ma non è chiara a sufficienza la definizione della sua causa profonda.
 
Quale causa?
Quando nella storia si aprono i grandi spazi del resto, sempre si producono crisi. È stato così per la scoperta geografica dell’America, è così ora con la scoperta economica dell’Asia. Io credo che la ragione della crisi sia in specie proprio nella globalizzazione: nel tempo e nel modo in cui è stata fatta. Nel tempo, concentrato e poi esploso nell’arco di pochissimi anni: nel 1994 a Marrakech in Marocco si definisce il Trattato sul commercio mondiale; l’Asia lo firma nel 2001. Fenomeni di questo tipo, fenomeni che hanno un’intensità drammaticamente forte, si manifestano normalmente nell’arco della longue durée, occupando la vita degli uomini, il passaggio tra le generazioni. Non si sono mai presentati così forti in così poco tempo. La globalizzazione non poteva certo e non doveva essere evitata, ma certamente è stata intenzionalmente accelerata e comunque è stata rapidissima. E poi è stata fatta troppo a debito. E adesso, proprio con la crisi, comincia a essere chiaro cos’è successo in questi ultimi anni.
Caduto il Muro di Berlino, finito il comunismo, l’America ha spostato l’asse del suo potere verso l’Asia e ha fatto un patto basato sulla “divisione prima” del mondo: l’Asia produce merci a basso costo e l’America le compra a debito. Le compra con debito interno, con la politica dei mutui ipotecari e altro. E poi le compra con debito esterno, perché l’Asia investe quello che guadagna vendendo merci in America proprio in titoli di debito americani. Troppo in fretta, dunque, e poi troppo a debito. È su questa base e nello scenario di questi squilibri commerciali, monetari, culturali, sociali e ambientali, che si inserisce un ulteriore fattore. Il fattore degenerativo della tecnofinanza. È in specie la tecnofinanza che ha prodotto sull’ethos capitalista una distorsione, rispetto alla originaria base protestante del capitalismo. Una base che per secoli è stata costituita tanto dall’etica delle intenzioni dall’etica delle responsabilità. Il capitalismo che si è sviluppato nell’ultima decade si è staccato da queste due forme originarie di etica. Ed ha preso quattro vizi.
 
Primo vizio.
Per secoli i banchieri hanno raccolto denaro sulla fiducia e prestato denaro a proprio rischio, valutando propriamente il rischio che così si assumevano. La nuova tecnica della finanza ha invece consentito, a chi raccoglie il denaro, di liberarsi dal rischio e di farlo con una tecnica per cui più vendi a terzi il rischio, incorporandolo in nuovi “prodotti finanziari”, meno rischi e più guadagni. È così che il rischio ha cominciato a circolare. Esiste ampia “letteratura” secondo cui questi meccanismi avrebbero dovuto avere una funzione positiva, di riduzione progressiva, di ammortamento del rischio. Più o meno tutti avrebbero così beneficiato della distribuzione del rischio operata via prodotti “derivati”, persino i contadini indiani. Insomma, secondo questa “letteratura”, i “derivati” avrebbero costituito una nuova e positiva scoperta sociale. Come se la grande scoperta sociale dell’Ottocento, l’imposta “progressiva”, fosse seguita da una nuova scoperta pure socialmente positiva: la finanza “derivativa”.
Questo ha fatto degenerare tutti modelli di comportamento. C’è un antico detto, secondo cui i banchieri ti prestano il denaro come l’ombrello. Ma te lo prestano quando c’è il bel tempo e te lo ritirano quando invece viene la pioggia. Qui è avvenuto l’opposto: più debito e ancora più debito. È  così che si è diffusa l’arte di vivere indebitati, grazie al buon cuore delle banche, e nella progressione di un paradigma che, basato sull’azzardo matematizzato dei derivati, ha creato e sta creando effetti progressivi di crisi.
 
Secondo vizio.
La possibilità di sviluppare attività economiche e finanziarie, il nuovo capitalismo emergente e performante, fuori dalle giurisdizioni ordinarie. È stato detto che questo tipo di evoluzione degenerativa del capitalismo è dovuto alla c.d. “deregulation”. In parte è stato così. In effetti negli Usa nel ‘95, nel ‘97, nel ‘99 e ancora nel 2000, vengono formalizzati provvedimenti legislativi assolutamente orientati nel senso della deregulation finanziaria. È così ma non è solo così. Ma la deregulation non spiega tutto. L’Europa, per esempio, è all’opposto un’area fortemente regolamentata. Eppure è un’area su cui pure c’è l’impatto della crisi.
L’essenza del problema non sta in realtà solo nella deregulation, che pure si ripete ha avuto un suo ruolo, quanto nella possibilità di sviluppare attività fuori da ogni tipo di giurisdizione. La struttura geopolitica che si è aperta nel mondo ha in specie consentito di fare shopping di legislazione, di sviluppare attività non solo in aree caratterizzate da una giurisdizione ordinaria vera – vera perché congiuntamente formale e sostanziale – ma anche in aree che formalmente erano organizzate come giurisdizioni, ma sostanzialmente sono aree nelle quali l’unica regola è quella di non avere regole. Ed è così che una quota importante del capitalismo è entrata, più che nello schema della deregulation, nel regno dell’“anomia”.
 
Terzo vizio.
Il capitalismo è essenzialmente basato sullo schema tipico, sull’idealtipo della società di capitali. Il capitalismo ha generato la società per azioni e viceversa. Come nella storia dell’uovo e della gallina. Ed è in specie proprio sullo schema della società di capitali che si è sviluppato quel sistema di equilibri di cui il capitalismo ha vitale bisogno. Il sistema dei controlli giurisdizionali, amministrativi, mediatici, giudiziari, è stato in specie ed a sua volta basato proprio sullo schema della società per azioni. Questo è stato fino a pochi anni fa. Poi la parte affluente e più dinamica e performante del capitalismo è uscita dallo schema della società per azioni e ha utilizzato altri strumenti. Gli hedge fund, gli equity fund.
Questi sono strumenti che rappresentano una evoluzione assolutamente esterna ed alternativa rispetto allo schema legale di base proprio del capitalismo, che è appunto quello della società per azioni.
 
Quarto vizio.
Il capitalismo, e dentro il capitalismo, lo strumento principe della società per azioni, si basano tra l’altro sul criterio della partita doppia. E questo è come dire, un tributo che va pagato a un antico francescano, a fra’ Luca Pacioli. Il criterio della partita doppia si organizza fondamentalmente e basicamente sulla distinzione tra conto patrimoniale e conto economico. Non esiste l’uno senza l’altro e non esiste l’altro senza l’uno. Diversamente, l’ultimo capitalismo si è liberato dal vincolo della partita doppia. Si è spostato solo sul conto economico, abbandonando la base del conto patrimoniale.
Questo non è stato solo un passaggio contabile, è stato soprattutto un passaggio politico e morale. Il conto patrimoniale è infatti il mondo dei valori. Il conto economico è invece il mondo dei prezzi. Il conto patrimoniale è un mondo in cui vedi la struttura, la storia, l’origine, il presente e il futuro di una società, e anche la sua missione industriale e morale. Il conto economico è invece un’altra cosa. Se tutto il capitalismo vira sul conto economico e cessa di essere orientato nella logica della lunga durata, come è invece tipico e proprio del conto patrimoniale, se diventa corto e breve, perché così è la logica del conto economico, se non conta più la durata della società, ma l’anno sociale, questo a sua volta diviso in semestri, in trimestri, in fixing giornalieri, allora è chiaro che quasi tutto cambia.
 
L’implosione
È così che il capitalismo ha preso la forma istantanea del conto economico. È così che è venuto via via configurandosi un capitalismo di tipo nuovo, di tipo “take away”. Estrai ricchezza dal conto patrimoniale, saccheggi i valori che ci sono dentro e li porti fuori. Questi quattro vizi, tutti insieme, hanno agito sul corpo del sistema capitalista, deteriorandolo. Ed è su questo che deve e può ora appunto cominciare una riflessione sul rapporto tra l’etica e l’economia. Un’economia che non solo ha perso il contatto con la realtà, presa dalla vertigine dell’onnipotenza drogata dal debito, ma che anche e soprattutto ha perso la sua originaria dimensione etica. È così che è stata tolta dall’ideario del capitalismo, se non la compassione, (questa forse non c’è mai stata) ma anche la funzione sociale. È in questi termini che si sta in specie avverando la previsione secondo cui il declino della disciplina, di una disciplina basata su un forte ordine etico e religioso, avrebbe portato le leggi stesse del mercato al collasso, all’implosione. Si tratta di uno scritto pubblicato nel 1985, sotto il titolo Church and economy in dialogue. L’autore dello scritto è il Cardinale Ratzinger.
 
Quel che resterà
Stiamo attraversando una “terra incognita”. Nel momento presente stiamo dentro una situazione caratterizzata da grandi criticità, da grandi complessità critiche. Non siamo dentro un normale ciclo di recessione, ma a fronte di una discontinuità, di una rottura di continuità. Credo che dobbiamo avere ignoranza scientifica, sapere di non sapere. Credo che dobbiamo diffidare di quelli che non sanno di non sapere, di quelli che non avendo previsto l’avvio della crisi, adesso tuttavia, invece di tacere, ti spiegano scientificamente cosa fare. Dobbiamo avere la modestia di sapere che la crisi ha una altissima complessità, ma che però, come tutte le crisi, ad un certo punto finisce. Ed è questa la fase in cui dobbiamo e possiamo riflettere, parlando di “economia sociale di mercato”. Non credo che si avvererà la profezia secondo cui la fine del comunismo porterà con sé anche la fine del capitalismo. Credo a qualcosa di meno drammatico. Può certo anche essere che alla fine del comunismo corrisponda la fine del capitalismo. È possibile, ma non è detto. Da zero a cento, è difficile cifrare il grado di probabilità di questa ipotesi. Ci vorrebbe un economista! Credo tuttavia fondamentalmente in uno scenario meno drammatico e meno radicale. Resterà il capitalismo, ma in una dimensione più conservativa e più umanistica, in una dimensione anti-autoritaria, anti-dogmatica, anti-perfettista. Uno scenario questo in cui si aprirà appunto lo spazio per l’“economia sociale di mercato”. L’occasione per un ritorno, attraverso la legge, all’ordine, alla disciplina, ai valori morali nell’economia. Non sarà solo una discontinuità economica.
Sarà anche una discontinuità politica. La sostituzione del paradigma finora dominante, del paradigma della domanda privata di beni di consumo, magari superflui, comprati possibilmente a debito, della sua sostituzione con un nuovo paradigma morale, civile, politico basato anche sulla domanda di beni collettivi, fatti per il bene complessivo. E tutto ciò in una prospettiva non limitata al presente, ma estesa anche al futuro. E non sviluppata sul debito, ma sul solido di una prospettiva fondativa. Perché non sarà più solo il mercato, ma anche la coscienza – la coscienza individuale e collettiva – a giudicare il potere. Un pensiero che ci può ispirare su questa via è quello vecchio e saggio di Platone: “L’unica moneta buona con cui bisogna cambiare tutte le altre è la phronesis: un’intelligenza che sta in guardia”. Una intelligenza che sta in guardia, soprattutto se guidata da Dio.


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