Fatto il Pdl, resta da inventarne la politica all’insegna di un’identità “fluida” che assume il pragmatismo e la contraddittorietà come necessari elementi orientativi all’insegna di un pluralismo indefinito nel quale tutto si può, per definizione, tenere. Sarà un modo nuovo di concepire un partito per gli italiani, piuttosto che un “partito degli italiani”, ma non credo possa reggere all’urto di crisi epocali che s’approssimano e che avrebbero bisogno di essere affrontate e governate con spirito diverso da un movimento che ambisce addirittura a rappresentare la maggioranza assoluta degli elettori.
La coesione esclusa a priori – e questo significa la rinuncia all’identità a favore della sintesi rappresentata dal leader il quale, oggettivamente, è stato delegato a “saltare” qualsiasi tipo di mediazione per rivolgersi direttamente al “popolo della libertà” – non potrà che far maturare differenze culturali che comunque hanno bi¬sogno di tradursi in politiche economiche, sociali, istituzionali, per non dire delle scelte internazionali sulle quali il Pdl rischia più di quanto la sua classe dirigente non immagini. Inventare, perciò, un indirizzo politico che leghi il partito nuovo alle aspirazioni dei suoi elettori non è facile come lo sarebbe stato se esso fosse nato da un compromesso alto tra le diverse anime che hanno concorso a formarlo e si fosse di conseguenza dotato di una cultura riassuntiva le varie sensibilità attorno a principi non trattabili.
Se non è stato possibile tutto questo, che ne segna indiscutibilmente la debolezza, sarà necessario surrogare il deficit “teorico” con una prassi interventista la quale, oltre all’individuazione delle priorità strutturali indispensabili a dar vita ad un minimo di modernizzazione civile, dovrà qualificarsi senza tentennamenti come movimento riformista lasciandosi dietro le spalle i politicismi che l’hanno portato ad assumere posizioni ondivaghe, poco comprensibili, talvolta improvvisate. Insomma, il Pdl se vuole dare un senso a se stesso e marcare con la sua presenza quantomeno lo spazio di questa legislatura, deve puntare tutte le sue carte sul¬la costruzione di un clima che favorisca l’apertura di una stagione costituente e, coerentemente, s’impegni a precisare le modalità per procedere verso la revisione della Costituzione e come ed in qual modo riscriverne almeno la seconda parte (ma chi ha detto che la prima è intoccabile?) in tempi se non brevi quantomeno certi.
Diversamente, il partito berlusconiano esaurirà tutto il suo presunto vitalismo nelle diatribe riguardanti la suc¬cessione al leader, gli organigrammi centrali e periferici, la difesa ad oltranza di fortilizi edificati da valvassori e valvassini a salvaguardia delle loro rendite di posizioni. La sclerosi non s’addice al Pdl. Ed il rischio, purtroppo, c’è. Paventarlo non vuol dire denigrarlo. Ma, al contrario, contribuire alla sua costruzione come soggetto politico dinamico per spingerlo ad assumere una fisionomia riconoscibile.
La garanzia che ciò accada è strettamente legata ad un riformismo che il Pdl dovrebbe accogliere in modo radicale, emancipandosi innanzitutto dalla sudditanza psicologica della Lega alla quale, oltre un discutibile federalismo, sembra non stia bene nient’altro. Al punto che la Carta costituzionale, tanto criticata dal dimenticato (nelle file padane) Gianfranco Miglio, sembra che a Bossi stia bene così. Se Berlusconi ed i suoi dirigenti non si renderanno conto che dare al Carroccio il vantaggio che pretende, vale a dire usare il Pdl come traino per la conquista di quasi tutto il nord, significherà accettare l’egemonia leghista e ridursi alla marginalità.
La prospettiva, naturalmente, viene respinta dagli interessati i quali però non sembra che facciano molto davanti a richieste che configgono perfino con le loro storie personali. Si tratti delle “quote latte” o del referendum elettorale, del sostegno al Mezzogiorno o delle norme barbare riguardanti gli immigrati clandestini che dovrebbero essere denunciati dai medici, la Lega segna sempre e comunque punti a suo vantaggio, mentre il partito a “vocazione maggioritaria” trema di fronte all’idea che Bossi possa ritirare l’appoggio al governo. Non è certo un bel vedere.
Il Pdl deve imparare ad osare. Diversamente, resterà ingessato nel suo berlusconismo privandosi della possibilità di incidere fattivamente sulla vita italiana, limitandosi a giocare di rimessa e a disperdere quel decisionismo che all’inizio della legislatura aveva connotato l’attivismo del presidente del Consiglio e che quanti lo avevano votato si auguravano che potesse avere sviluppi più evidenti. E che di decisionismo si avverta la necessità a fronte di una crisi dalle proporzioni drammatiche, è fuori discussione. Non basta tuttavia chiedere maggiori poteri per l’esecutivo perché d’incanto una democrazia parlamentare diventi improvvisamente “decidente”.
Occorre che il quadro costituzionale muti profondamente al punto che governo e Parlamento rivedano i loro rispettivi ruoli ed il gioco di pesi e contrappesi venga determinato con cura onde prevenire crisi di legittimità che aggiungerebbero danni all’inefficienza del sistema istituzionale. Insomma, per essere chiari, non basta una modifica, per quanto indispensabile, ai regolamenti parlamentari per rendere più snelle le procedure legislative e slegare le mani che il premier ritiene di avere legate. C’è bisogno che l’impianto complessivo venga rivisitato alla luce di una Costituzione materiale profondamente mutata e di una prassi politica che ha conosciuto surrettizie modifiche al punto di aver cambiato la percezione del potere da parte dei cittadini. Il Pdl sarà all’altezza del compito? Dopo l’effervescenza delle giornate costituenti, a dire la verità, abbiamo assistito più a divaricazioni etico-politiche nel suo ambito che al recupero di un autentico spirito di coesione proprio sul terreno che dovrebbe essergli più congeniale, quello delle riforme. La circostanza non ci lascia indifferenti. Come non dovrebbe lasciare indifferente quel “popolo della libertà” che, riconoscendosi in un solo movimento lo vorrebbe finalmente proiettato nell’interpretare le sue aspirazioni. Senza formali (o pretestuose) diversificazioni.