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Il tabù della parola Democrazia

Nel vocabolario occidentale poche parole esprimono un senso di sacralità unanimemente riconosciuto. Una di queste è senz’altro “democrazia”. Il secolo scorso si è chiuso con l’affermazione di questo modello: la sua apoteosi è stata nel 1989 con il crollo del Muro di Berlino. Nel 2001 la caduta delle Torri Gemelle ha come interrotto una sorta di luna di miele. Allora, la risposta è stata nello slogan – per nulla banale – “esportare la democrazia”. Sono passati solo pochi anni e le nostre certezze vengono assaltate dai cannoni di una crisi che è stata sin qui percepita come di natura finanziaria e di grandissima portata e che forse si rivelerà menograve bensì più profonda. Questa crisi, a ben vedere, ha sì messo a nudo gli eccessi del capitalismo ma ha soprattutto rivelato la fragilità del sistema democratico.Negli ultimi decenni siamo cresciuti nella convinzione che crescita e sviluppo facessero rima con democrazia. E che questa si alimentasse a sua volta con il mercato, libero o sociale che fosse. Il dibattito infatti ha ruotato sempre sul modello economico e mai su quello politico/costituzionale. A partire dall’esperienza comunista, iregimi autoritari sono stati infatti accompagnati dall’idea di arretratezza e povertà.Oggi siamo al capovolgimento di questo paradigma. Una seria ricerca del prof. Berglof rivela che nei Paesi ex-comunisti la transizione al mercato ha aumentato le disuguaglianze e le povertà. Il futuro degli Stati Uniti è appeso alla capacità della Cina di acquistarne il debito. Noi stessi in Italia ci affidiamo agli investimenti della Libia e dei Paesi del Golfo. Queste interazioni sui mercati economici e finanziari determineranno conseguenze anche sugli aspetti valoriali delle nostre democrazie?Evidentemente, la risposta deve essere ancora scritta e qui – nella sua elaborazione – sta il ruolo della politica e della cultura. Nel frattempo, vale la pena di rileggere una frase pronunciata a Trento da Paul Krugman prima di ricevere il premio Nobel: “Non è scritto da nessuna parte che il progresso economico porti necessariamente alla democrazia. E dunque il futuro non sta tanto nel Pil pro capite del mondo, quanto nel tipo di persone che vivono in questo mondo”. Forse sbagliava l’intellettuale Fukuyama quando si abbandonava nell’ottimistica previsione della “fine della storia” perché il mercato avrebbe determinato un grande contagio globale della democrazia. La storia è in pieno svolgimento e l’esito non è scontato. Togliere la parola democrazia dal simulacro impolverato nel quale è incastonato da oltre mezzo secolo e provare a rivitalizzarla sulla base di quanto sta accadendo nel mondo, e nell’Occidente stesso, è un esercizio che potrebbe rivelarsi nient’affatto inutile.


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