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La democrazia vincerà, ma…

Negli ultimi decenni siamo cresciuti nella convinzione che crescita e sviluppo facessero rima con democrazia. E che questa si alimentasse a sua volta con il mercato, libero o sociale che fosse. Il dibattito infatti ha ruotato sempre sul modello economico e molto meno su quello politico/costituzionale. La globalizzazione non regolata (quella per intenderci voluta da Clinton) ha aperto la strada all’affermazione del mercato senza democrazia. Formula questa “impersonificata” e diremmo codificata dalla Cina (ragionamento analogo ma nient’affatto identico varrebbe per i regimi islamici). Abbiamo incontrato Jean Paul Fitoussi, economista e scienziato politico fra i più raffinati in Europa e gli abbiamo chiesto un suo commento ed una sua previsione.
Il virus della democrazia si diffonderà attraverso la crescita dei mercati oppure l’affermazione sul mercato delle “monocrazie” metterà in crisi i sistemi democratici?
“Dipende dall’orizzonte temporale in cui si ragiona. Oggi per esempio ci sono molti più regimi democratici che nel 1970. Certamente, molti regimi totalitari sono emersi grazie al commercio internazionale. Prendiamo il caso della Cina: partecipa agli scambi globali ma si tratta di uno Stato che ha una politica industriale pianificata e che non consente ai privati spazi per la libera intrapresa. Un sistema quindi ben diverso da quello della democrazia e del libero mercato. Questa asimmetria commerciale fa sì che la Cina si sviluppi conquistando il primato nella manifattura dei prodotti. I Paesi produttori di petrolio, poi, sono stati sempre ricchi perché hanno dell’oro sotto ai piedi e vi resta, crisi o non crisi, nonostante l’abbassamento del prezzo di questi ultimi mesi”.
Allora conferma: davvero sta prevalendo il mercato rispetto alla politica?
“No, non bisogna lasciarsi confondere. Penso che la crisi ha dimostrato che il mercato fallisce e che ha bisogno dell’intervento dello Stato. Sia totalitario o democratico. Ma, a ben vedere, possiamo constatare che tutti i Paesi democratici hanno fatto piani per risolvere il problema della crisi e che la Cina ha seguito, e non il contrario. Il processo democratico è naturalmente più farraginoso ma produce decisioni più efficaci e talvolta persino più rapide di quelle che vengono dai regimi totalitari. Quanto alla Cina, poi, non possiamo sottacere l’incertezza enorme che riguarda il suo assetto politico. Se non ci sarà una evoluzione liberale, i capitali potrebbero non arrivare più come oggi e la Cina sarà costretta a subire maggiormente la concorrenza dell’India che è un regime democratico e che sarà tra dieci anni un Paese ancora più popolato della Cina. Quindi, prima di affermare la vittoria del mercato sulla democrazia, consiglierei prudenza”.
Eppure nelle stesse capitali della democrazia si mette in dubbio l’efficacia di un meccanismo logorato, per esempio, dallo straripamento dell’influenza delle lobbies…
“Questo è vero: si fatica molto di più in un regime democratico che in uno totalitario. Ma la resistenza del regime democratico è molto maggiore di quella del regime totalitario. Perché il regime totalitario è stabile fino a quando non crolla. Poi si frantuma. Guardiamo quel che è successo all’Unione sovietica: non è detto che non possa ripetersi anche in Cina. Quasi sicuramente non domani, chissà fra trent’anni…”.
E l’economia basata sulla regola islamica della shari’a ha invece, secondo Lei, basi più solide rispetto a quella pianificata cinese? Saranno i regimi religiosi attraverso i Fondi sovrani a contaminare la democrazia o il contrario?
“La finanza islamica c’è e dobbiamo farne i conti. Ma non mi sembra che i Fondi sovrani si siano sviluppati come noi temevamo. Innanzitutto c’è stata una reazione dei Paesi democratici che hanno messo degli ostacoli alla possibilità che uno Stato estero compri propri asset. Un buon esempio, in questo senso, è quanto accaduto in America con il porto di New York. Nella finanza c’è poi un’esigenza di forte trasparenza che, diciamo così, non è la principale caratteristica dei Fondi sovrani. In ogni caso, lo voglio ribadire, io sono ottimista sull’andamento dei regimi democratici. Soprattutto in questa fase in cui si è capito che la politica ha diritto di parola e di intervento sul funzionamento dell’economia”.
Ma, proprio da questo punto di vista, non Le sembra che negli scorsi anni si sia dato forse un po’ troppo per scontato il concetto di democrazia e concentrandosi sul modello economico e tralasciando l’importanza invece delle regole istituzionali?
“Condivido pienamente. Negli anni precedenti si è data un’importanza tale al mercato che il regime politico sembrava non contasse più. Si ripeteva sempre che solo il mercato è importante. E oggi scopriamo che non è vero. È successo che senza la politica, senza la democrazia, le grandi imprese che facevano la legge nel mondo crollano. E oggi sono loro, le grandi compagnie, che vanno a domandare i soldi alla democrazia, agli Stati. E c’è anche il paradosso per cui le imprese vanno a domandare sussidi al tax payer il quale non dice no. Questo mi fa sperare che le cose possano cambiare e che quando l’erario andrà a chiedere soldi alle imprese forse queste avranno un atteggiamento diverso rispetto a quello che hanno avuto fino ad oggi. La verità infatti è che senza l’intervento dello Stato le grandi imprese (automobili, banche) sarebbero crollate. È la democrazia che le ha salvate, che ha di fatto salvato il mercato. Questo rivela la straordinaria forza e potenza dello Stato: solo un anno fa si diceva che le casse erano vuote ma poi i Paesi hanno comunque trovato quei miliardi e miliardi di dollari e di euro che erano necessari. La democrazia può salvare il mercato perché ha una caratteristica peculiare: ha la durevolezza. Perché si sa che rimborserà i suoi debiti, avendo una vita quasi eterna. Per i regimi totalitari non si può dire altrettanto”.
A maggior ragione, sia pure col senno di poi, non Le sembra che il processo di globalizzazione sia stato gestito superficialmente e che si è preferito liberare il commercio troppo frettolosamente?
“Attenzione a non confondere la realtà con la retorica. Il cosiddetto mercato globale è assai meno libero di quello che si dice. Una parte importante del commercio internazionale avviene per ragioni di diplomazia. C’è la politica, ci sono i grandi interesse nazionali e non gli attori privati sui grandi scambi: aerei, petrolio, tecnologie, nucleare. È per questo che ogni governo va a fare una visita con i suoi imprenditori in Cina, in Russia, in Libia, in India, o in Brasile. Non sempre quando si parla di mercato libero si dice il vero…”.
Però per numerose aziende la competizione è molto aumentata.
“La concorrenza c’è, è evidente. Ma è fra le imprese che non sono strategiche. Per essere protette, le aziende hanno compreso che hanno bisogno di diventare strategiche. Dunque, che fanno? Scommettono sulla crescita dimensionale in modo da diventare ‘Too big to fall’. È quel che è successo alle banche, all’industria automobilistica: fanno finta di essere sul mercato libero ma in realtà sono protette… In definitiva la concorrenza è tra piccoli e medi ma non fra grandi”.
Un bel paradosso che non deve neppure essere l’unico se si è sviluppato un forte filone di discussione, sia negli Stati Uniti sia in Europa, sullo stato di salute della democrazia nell’area occidentale.
“Il problema è che la democrazia è una forma di governo dinamica e allo stesso tempo molto fragile perché subisce la pressione lobby. Per altri versi è molto resistente perché rappresenta un’istituzione capace di autocorrezione: banalmente, quando una politica è sbagliata si cambiano i governanti. È più facile cambiare un governo che il board di una banca ed è più facile correggere una democrazia che una grande impresa! Ogni 4 o 5 anni governi e parlamenti devono ritornare davanti agli elettori che li giudicano. Se oggi c’è un’incertezza sulla democrazia, questa riguarda il problema dei media. Se stampa e tv sono liberi, allora va bene. Se sono nelle mani delle lobby allora non si sa che può accadere. E quel che registriamo per il momento dimostra purtroppo che i media sono sempre più concentrati nelle mani delle lobby”.
Come si può proteggere la democrazia dallo strapotere dell’oligopolio dei media?
“Semplice: facendo le leggi, non dovrebbe essere così difficile…”.


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