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Combattere la corruzione con la trasparenza delle instituzioni

Quando si tratta il tema della corruzione e delle altre forme di illecito nella Pubblica amministrazione, vi è la necessità di ascoltare la domanda di conoscenza reale e non ideologica del fenomeno.

Invero, la trattazione dei temi relativi alla distorsione dell’azione amministrativa si risolve, il più delle volte, in un manifesto di equivoci e semplificazioni culturali che non aiutano un confronto rigoroso e, quindi, necessario, alla comprensione di fenomeni assolutamente peculiari della nostra società.
Il rischio, costantemente in agguato nel definire il profilo di problematiche che incidono pervasivamente sul rapporto di fiducia tra “Cittadini e Istituzioni” è quello di confondere la causa con l’effetto, consentendo, quindi, una rappresentazione rovesciata della realtà ad uso e consumo di questa o quella posizione ideologica e politica.
Il fenomeno va correttamente inquadrato: è certamente rilevante, come vedremo, seppure spesso quantificato con una sicurezza che meriterebbe maggiore attenzione, ma non può essere la causa della situazione di disagio e di sfiducia, che sembra, a tratti, ovunque avvertita, seppure con diverse intensità, in tutta la penisola.
Per questo le soluzioni sbrigative e focalizzate, magari elevando questa problematica ad unico centro di responsabilità, oltre a non essere evidentemente condivisibili, non sono neppure utili.
Lungo questo percorso, infatti, la politica del risentimento riesce ad insinuarsi nei cuori della gente, che già si sente abbandonata in un mondo che è rapidamente cambiato e che da troppo tempo attende risposte a questo disagio le cui cause sono state troppo a lungo ignorate.
Le abituali, consuete iniziative estemporanee sono la più chiara espressione di una “navigazione a vista”, con i cittadini “utenti e clienti” del sistema che apaticamente assistono a ciò che passa, senza illudersi, oramai, che serva veramente, che le cose possano sostanzialmente cambiare.
Assuefacendosi, lentamente, ma inesorabilmente, a questo mondo che sembra popolato di inefficienze e mariuoli, veri o presunti poco importa, mentre la fiducia scompare e, con questa, inizia a morire pian piano la stessa società sempre più impassibile e immobile di fronte ad un destino che sembra ineluttabile.
Sempre più a fondo senza mai toccare il fondo”?
Le parole di Sciascia sembrano profetiche visto che da circa 15 anni si parla continuamente di legalità: eppure, ed è l’aspetto singolare di interesse, il “periodico dibattito” sul tema della legalità, e su tutto quello che vi ruota attorno, spesso non va oltre il momento dialettico, ennesima conferma di un Paese che sembra vivere della logica gattopardiana del “se vogliamo che tutto rimanga com’è, è necessario che tutto cambi”, dove si rileva una sfasatura amplissima tra le parole e le cose, tra l’ideologia e la realtà, con frasi ripetute come un rosario o come uno stratagemma per costruirsi un immenso alibi di fronte alle regole continuamente trasgredite.
L’idea di legalità – per il riscatto del Paese dalla corruttela, per la rinascita delle aree infestate dalla criminalità organizzata, per recuperare un livello di convivenza civile accettabile – sembra surfare sulle onde, apparendo e scomparendo con pari velocità e ciclicità, fino a diventare un passe-partout per la rassicurazione del cittadino, ghiotta occasione di promesse elettorali e di consenso a buon mercato.
Si tratta, in effetti, di un termine spesso abusato, almeno sotto il profilo semantico, perché lusinga, perché può far rima con onestà e si può confondere addirittura con la giustizia, perché può litigare con la solidarietà e, qualche volta, anche con la democrazia, mentre – come ha notato il prefetto Angelo Tranfaglia, in un suo recente intervento al convegno “Repubblica, Costituente e voto alle donne”, Parma, 2007 – se ne registra una “profonda crisi sotto i diversi profili di una crisi del diritto in sé, della credibilità dell’organizzazione dello Stato e delle sue istituzioni, della cultura, della comunità civile”.
Non sembra cambiato molto da quando Giolitti ripeteva che “L’Italia è gobba”, perché emergeva costantemente una doppia morale, una pubblica, all’apparenza rigorosa nell’adesione alle normative esistenti, ed una privata, fatta di flessibilità estrema, tesa ad adattare anche il rispetto delle regole allo specifico contesto.
Non sembra trattarsi tanto di un maggiore distacco degli individui dalle norme, sotto la spinta di una tendenza egoistica, quanto di una vera e propria anomia, di un non riconoscimento del valore e del senso delle norme, che non riescono più a garantire una vita sociale ordinata: la diffusione della “normale” violazione della legalità, la cd. corruzione inconsapevole di cui parla Roberto Saviano, quasi che le tangenti fossero necessarie come il “lievito alla panificazione”, per usare l’immagine disegnata di Giorgio Bocca.
Ci si ritrova, così, a confidare, anzi, meglio, a sperare – come indicato da La Rochefoucault – nell’ipocrisia come ultimo baluardo della virtù: insomma, coloro che si rappresentano probi mentre stanno dissimulando il loro agire attestano pur sempre l’esistenza di regole di cui si ammette l’importanza, confermando che esiste un limite tra giusto e ingiusto e riconoscendo che un’etica pubblica, anche se non la rispettano, comunque c’è e ognuno è tenuto – almeno in linea di principio – a rispettarla.
Invero, oggi rispettare le leggi può comportare dei seri problemi, proprio perché l’osservanza non è costume generale, né abitudine spontanea, né virtù sempre apprezzata: “molti italiani amano l’illegalismo”, ha recentemente ricordato il prof. Cordero, con il rispetto della legge che viene addirittura avvertito come un segno di dabbenaggine, a volte come autolesionismo puro, perché dove l’inosservanza è la regola, l’uomo giusto si trova in condizione di minorità frustrante.
La persona corretta, nei fatti, viene, così, posta dinanzi ad un’alternativa odiosa: imitare le furbizie altrui ed aderire alle prassi in voga, commettendo le scorrettezze che si vedono fare da altri, previa giustificazione della necessità di adeguarsi per sopravvivere, oppure accettare di venire spesso discriminata nel mondo del lavoro, nella vita sociale e nei propri interessi: “La disperazione più grave che possa impadronirsi d’una società – ricordava Corrado Alvaro – è il dubbio che vivere rettamente sia inutile”.
Una Caporetto delle Istituzioni, sintesi di un’Italia che, oltre ad aver sempre mescolato il serio con il futile – ricordava Indro Montanelli – ha spesso preso il futile come l’unica cosa seria, con l’ulteriore pericolo che sanzioni non tempestive e non adeguate finiscano con l’alimentare una spirale di ribellismo individualistico in grado di provocare danni ed effetti collaterali talora micidiali sul funzionamento del “mondo pubblico” perché finiscono con l’alimentare nel Paese l’insidiosa diffusione di un “ribellismo molecolare” alquanto insidioso e contagioso.
Quella tra cittadino e legalità appare, quindi, come una relazione sofferta, nella quale il normale senso civico, se e dove esiste, finisce con il venir descritto e vissuto come una virtù eroica, un calvario che adduce al martirio e alla successiva beatificazione laica, quasi che il fare il proprio dovere di cittadino, di lavoratore, di padre di famiglia, non sia più la normalità.
Con una ulteriore conseguenza nefasta: questo cilicio finisce con il rendere normale tutto il resto, in un deterioramento progressivo del contesto ambientale, nel quale, se l’immoralità non è avvertita come tale, rischia di diventare amoralità, in una sorta di spaesamento dell’etica.
Si finisce, così, ad esempio, con il diffidare del merito, soprattutto perché il reclutamento e la promozione dei più capaci introducono un intollerabile elemento di imprevedibilità nel sistema ed è un attentato al diritto di cooptazione. Di quel sistema nel quale la lottizzazione appare – secondo Paolo Mancini in Elogio della lottizzazione – come sorella gemella ma assai più appetibile della proverbiale “sora camilla”: nessuno la vuole, però ognuno se la piglia, sempre nel buio e nel silenzio, con gli esclusi che denunciano l’altrui lottizzazione, guardandosi bene dall’ammettere che se avessero buscato anche loro qualche posto di potere non sarebbe stata lottizzazione ma esercizio di pluralismo.
Una “legalità debole”, quindi, come l’ha definita il prof. La Spina nel saggio Mafia, legalità debole e sviluppo del Mezzogiorno, nella quale vince il quotidiano sfruttamento di spazi di illegalità, di opacità normativa ed amministrativa, di sommerso economico, mentre ognuno – per dirla come Guicciardini – è impegnato a coltivare il suo “particulare”, il proprio interesse personale.
Per questi motivi, la quali-quantificazione dei fenomeni di distorsione dell’azione amministrativa appare estremamente complessa, anche perché l’eponimia tra corruzione e la miriade di condotte, illecite o meno, che – a vario titolo e in modo atecnico – vi si ricomprendono, non ha consentito fino ad oggi, almeno questa è l’impressione, l’individuazione condivisa di un linguaggio universale e universalmente riconosciuto nella materia.
Se non si vuole vivere alla giornata sotto la grandine di statistiche tutte deprimenti rispetto ad una “questione morale” che non è mai stata rimossa e che costantemente – quasi come un fiume carsico – riemerge nel dibattito politico e sociale, non è sufficiente fare riferimento solo alla collocazione di questa o quella procedura, amministrazione, area geografica… in una scala ordinale dei reati.
La ricostruzione della morfologia del fenomeno passa necessariamente attraverso la scoperta degli aspetti ambientali, comportamentali, culturali negativi e positivi che, in combinazioni talora casuali e conseguenti, hanno fino ad oggi contribuito a stratificare una certa immagine del Paese.
Al momento, la molteplicità di dati, solo alcuni provenienti da fonti ufficiali, che coesistono, si affastellano, a volte si inseguono soprattutto sugli organi di informazione, non sembra riuscire a dare, però, con la necessaria nitidezza, una rappresentazione del fenomeno che venga, o che possa venire ritenuta credibile di questa fenomenologia criminale che incide sul desiderato, atteso livello di funzionalità della Pubblica amministrazione.
Una difficoltà alla quale si aggiunge una percezione negativa della situazione direttamente proporzionale alla distanza che separa l’osservatore dai fatti di interesse, così che, soprattutto agli occhi di chi guarda all’Italia dall’estero, può rafforzarsi l’immagine di un Paese dove vige la legge del più furbo o del più forte piuttosto che la forza della legge.
La soluzione, e l’analisi della “corruzione misurata” è solo il primo passo, risiede nel tentativo di individuare alcune matrici di decrittazione, certamente innovative, attraverso le quali perseguire una attualizzazione realistica e non ultra-dimensionata del fenomeno: senza un adeguato itinerario logico; infatti, la trappola della massimizzazione del rischio unita all’assenza di queste matrici, indispensabili per comporre a sintesi un quadro conoscitivo assolutamente eterogeneo di dati e informazioni, rendono difficile una definizione il più possibile realistica della patologia criminale e, immediatamente dopo, lasciano spazio, e prestano il fianco, a qualsivoglia manipolazione disinformativa.
La corruzione misurata
Il numero dei reati registrati rappresenta, come noto, solo una parte di quelli effettivamente compiuti considerato che la rilevazione non “percepisce”, per diverse ragioni, un numero più o meno rilevante di reati che compongono il cd. “sommerso della criminalità”.
In particolare, qui emerge una ulteriore difficoltà nella lettura del fenomeno e, quindi, nella misurazione del dato. I reati contro la Pubblica amministrazione sono in larga parte “reati senza vittima”, caratterizzati cioè dal fatto che manca il tipico vettore della denuncia, nel senso che non vi è una vittima, persona fisica o giuridica, che, quale soggetto passivo, può presentare una denuncia alle Forze di Polizia, facilitando, quindi, la rilevazione e l’intervento sulla condotta criminale.
Una situazione alla quale si aggiunge la difficoltà per le Amministrazioni danneggiate di percepire con immediatezza i contorni della condotta illecita e, conseguentemente, il danno subito.
Nella stessa concussione, ipotesi delittuosa ben più grave della corruzione – reato a concorso necessario – dove vi è il convergente interesse al silenzio dei protagonisti del pactum sceleris, il concusso “attraversa” una situazione di “vittima inibita” nel momento in cui si trova davanti al bivio tra la denuncia, con il conseguente rischio di rappresaglie, e l’accettazione della dazione.
Nonostante gli aspetti segnalati e le conseguenti cautele nella lettura, le statistiche della delittuosità ottenute grazie al Sistema di Indagine del ministero dell’Interno forniscono indicazioni sufficientemente attendibili sull’andamento dei reati, pur evidenziando che, trattandosi di una rilevazione dell’attività svolta dalle Forze di Polizia, restano fuori da questa “fotografia” tutti i reati che vengono denunciati direttamente all’Autorità giudiziaria o che questa rileva autonomamente, un dato certamente significativo in tema di white collar crimes.
Come si può rilevare dalla “tabella 1”, pur registrandosi alcune variazioni che si esamineranno analiticamente, il numero dei delitti registrati è sostanzialmente stabile e assolutamente esiguo: l’intero panel di reati contro la Pa è di poco superiore all’uno per mille del totale dei delitti consumati in Italia, e, aspetto forse ancora più interessante, si registra uno di questi delitti ogni mille dipendenti pubblici.
Tabella nr. 1: Reati conto la Pubblica amministrazione.
Totale annuo dei reati consumati e delle persone denunciate suddivise per genere.
Anni 2004 – 2008
2004
2005
2006
2007
2008
Delitti registrati
3.403
3.552
5.499
3.368
3.317
Persone denunciate
F
M
F
M
F
M
F
M
F
M
2.774
9.708
2.914
10.611
5.634
14.342
3.516
10.844
2.918
10.486
12.482
13.525
19.976
14.360
13.404
Fonte : MiPaI, Servizio Anticorruzione e Trasparenza, I Rapporto al Parlamento, marzo 2009, su dati ministero dell’Interno
Senza voler prestare il fianco ad eventuali, facili rilievi di sottorappresentazione del problema, è inevitabile acquisire questa risultanza come un elemento di riflessione che non può essere trascurato in tema di “morfologia della corruzione”.
Emergono, preliminarmente, due aspetti di particolare interesse:
  1. a fronte di una sostanziale stabilità del numero di persone denunciate e di una proporzionalità rispetto al numero dei delitti registrati, appare certamente singolare l’esito della prospettiva di genere, tenuto conto che l’universo della questione criminale è fondamentalmente maschile, mentre qui la percentuale di donne denunciate che si attesta su percentuali assolutamente significative sfiorando il 30% nel 2006. Un dato viepiù rilevante se si considera che la tuttora ridotta presenza femminile nelle posizioni di vertice della Pubblica amministrazione (le dirigenti sono solo il 38,9% del totale, secondo la “Relazione sulla Pa 2008”) e la rilevante presenza femminile nel mondo della scuola (79,8% dei dipendenti) dove le “opportunità criminali” sono certamente esigue rispetto a quelle di altri settori.
  2. il picco registrato nel numero delle denunce per l’anno 2006.
Appare, quindi, utile aprire uno spaccato analitico relativamente alle condotte criminali di maggiore interesse.
Tabella nr. 2: Principali reati conto la Pubblica amministrazione.
Reati consumati.
Anni 2004 – 2008
2004
2005
2006
2007
2008
corruzione
(art. 318, 319, 320 cp)
158
126
112
128
140
concussione
(art. 317 cp)
138
115
80
130
135
peculato
(art. 314 cp)
273
279
243
270
272
abuso d’ufficio
(art. 323 cp)
1016
1051
935
1097
1.134
Truffa per il …
ex art. 640 bis
824
893
2.725
778
737
Indebita percezione
(art. 316 ter cp)
462
598
858
393
334
Fonte : MiPaI, Servizio Anticorruzione e Trasparenza, I Rapporto al Parlamento, marzo 2009, su dati ministero dell’Interno
La prima risultanza è la spiegazione del picco per l’anno 2006, evidentemente provocato dall’emersione di una importante serie di distorsioni nel corretto utilizzo di fondi comunitari e, comunque, di finanziamenti a valere su diverse linee nazionali di erogazione, condotte – penalmente sanzionate dagli artt. 640 bis e 316 ter c.p. – che presentano una duplice valenza di tipo economico: sono risorse, spesso ingenti, sottratte al bene pubblico e “deviate” rispetto alla loro destinazione finale per arginare e avviare a riduzione il “ritardo” che tuttora caratterizza alcune aree del Paese.
Nel corso del 2006, infatti, sui 5.449 delitti totali registrati per reati contro la Pa, ben 3.583 (il 65,75%) rispetto ai 1.491 del 2005, fanno riferimento a queste due sole ipotesi delittuose.
Vi è, poi, da registrare come queste due violazioni costituiscano, comunque, anche nei rimanenti anni, una parte estremamente rilevante sul totale di quelli registrati contro la Pa:
  1. nel 2004, 1.276 sui 3.403 delitti totali registrati, il 38%;
  2. nel 2005, 1.491 sui 3.552, il 42%;
  3. nel 2007, 1.171 sui 3.368, il 35%;
  4. nel 2008, 1.071 sui 3.317, il 32%.
Sono due violazioni nelle quali il ruolo del pubblico dipendente assume un rilievo molto sfumato: il soggetto attivo è, infatti, soprattutto un privato che predatoriamente “attacca” beni pubblici, al pari di un ladro, un rapinatore o, appunto, un truffatore. Certo vi può essere il pubblico dipendente che concorre nell’atto predatorio e che ne può rispondere a titolo di concorso, vi può essere chi lo favorisce, chi non vede, chi non svolge con diligenza i propri compiti e che quindi ne risponderà nelle sedi e nei modi previsti, ma, prima di tutto e prevalentemente, si tratta di atti di privati, insomma di quell’Italia che alla forza delle legge preferisce la legge del più furbo o del più forte.
Più che un problema di etica, sembrerebbe, quindi, un tema da security aziendale, necessariamente focalizzata sulla tutela degli asset societari da violazioni, truffe, sottrazioni…
Circostanze, insomma, che sembrerebbero ben diverse da quelle continuamente riproposte circa la necessità di recuperare i 3 milioni di dipendenti pubblici ad una idea di moralità che appare, invece, tutt’altro che smarrita. Un dipendente pubblico che tradisce la fiducia, viene meno al sentimento di lealtà istituzionale, approfitta della propria posizione, costituisce un fatto gravissimo che merita ogni dovuta attenzione e cura perché è:
  1. negativo, per il danno economico che arreca;
  2. dannoso, per la sfiducia nel sistema che alimenta;
  3. pericoloso, in prospettiva, soprattutto se l’anomalia non viene rilevata tempestivamente, per l’esempio negativo agli occhi dei colleghi.
Senza, quindi, alcuna sottovalutazione di questo profilo estremamente rilevante, i dati indicano che il problema prioritario è altrove, ed è quello di “mettere a sistema” una serie di antifurti, impianti di allarme, porte blindate, come ognuno di noi fa a casa propria, in sintesi una serie di contromisure adeguate, soprattutto sotto il profilo organizzativo e procedurale, che impediscano ai delinquenti di considerare la Pubblica amministrazione come un bancomat dove attingere senza plafond.
Non appare, poi, privo di interesse notare nella “tabella 2” come il dato per questi due reati sommato a quello della violazione di cui all’art. 323 c.p. “abuso d’ufficio”, porti ad evidenziare come queste tre violazioni costituiscano la parte più rilevante dei delitti totali registrati contro la Pa:
  1. 67% nel 2004, 2.294 delitti sui 3.403 totali;
  2. 72% nel 2005, 2.542 sui 3.552;
  3. 83% nel 2006, 4.518 sui 5.449;
  4. 67% nel 2007, 2.268 sui 3.368;
  5. 66% nel 2008, 2.205 sui 3.317.
Una cifra della frequenza del delitto di abuso d’ufficio che, comunque, all’interno del dato totale rilevato, assume proporzioni di evidente interesse: quasi un terzo dei delitti registrati, se si eccettua l’anno 2006 interessato dal picco descritto, fa, infatti, riferimento a questa fattispecie penale che, come noto, presenta un accentuato profilo di residualità rispetto ad ipotesi ben più gravi di responsabilità, tanto da farne spesso affiorare – almeno dai riscontri obiettivi emergenti dal percorso processuale di queste denunce – la natura di norma “di chiusura” del sistema, rubricata solitamente quando vi è la convinzione che delle anomalie abbiano interessato il corretto andamento di una procedura amministrativa ma non vi sono elementi circa il “mercimonio” della funzione pubblica.
Conclusivamente, grazie ad un ulteriore grado di approfondimento, è utile riprendere l’accennata prospettiva di genere per una migliore lettura del singolare dato già segnalato.
Tabella nr. 3: Principali reati conto la Pubblica amministrazione.
Totale reati consumati e persone denunciate suddivise per genere.
Periodo 2004 – 2007
Delitti
corruzione
(art. 318, 319, 320 cp)
concussione
(art. 317 cp)
abuso d’ufficio
(art. 323 cp)
Truffa per il …
ex art.640 bis
Indebita percezione
(art. 316 ter cp)
Numero denunce
524
469
4.099
5.220
2.311
Persone denunciate
F
M
F
M
F
M
F
M
F
M
635
3.619
95
1.030
1.489
10.400
8.794
19.386
2.601
3.623
4.254
1.125
11.889
28.180
6.224
Fonte : MiPaI, Servizio Anticorruzione e Trasparenza, I Rapporto al Parlamento, marzo 2009, su dati ministero dell’Interno
A fronte della estrema esiguità di donne denunciate per i reati di corruzione (il 14,9%), di concussione (l’8,4%) e di abuso d’ufficio (il 12,5%), emerge un dato di assoluto rilievo per:
  1. l’art. 640 bis c.p., dove la percentuale di donne denunciate raggiunge il 31%;
  2. l’art. 316 ter c.p., dove supera il 40%.
Un ultimo profilo di interesse appare la lettura disaggregata per regione e, quindi, la verifica della distribuzione territoriale della fenomenologia criminale fin qui analizzata.
Il rischio è qui quello di utilizzare chiavi di lettura non aderenti alla particolare fenomenologia, che alligna soprattutto dove si produce Pil pubblico o dove il numero delle “transazioni” a rischio è quantitativamente più elevato: qualsiasi interpolazione di dati che non tenga conto di queste variabili rischia, quindi, di portare a risultati drogati e paradossali, quali quelli, ad esempio, di una regione nella quale esiste una Pubblica amministrazione molto efficiente, poco costosa e con pochi dipendenti, nella quale il numero delle denunce, magari esiguo, visualizzato per dipendente pubblico rischia di produrre dati abnormi che evidenziano un “elevato rischio corruzione”; o quelli di una regione nella quale la rarefazione della popolazione rischia di risolvere la lettura del dato delle denunce in relazione alla popolazione residente in esiti che finiscono, analogamente, con il disorientare.
Di particolare interesse, soprattutto in relazione al rilevante numero di denunce relative alle accertate distorsioni nell’utilizzo di finanziamenti e fondi pubblici, appare tale analisi in alcune aree del territorio nazionale marcatamente segnate dalla presenza della criminalità organizzata che esercita un pervasivo condizionamento sulla vita pubblica e, quindi, sull’azione amministrativa. Una verifica, quindi, utile a fornire elementi di eventuale riscontro in relazione alla possibilità che tale pervasiva manifestazione delinquenziale riesca a gestire anche il “mercato della corruzione”, con una accentuazione del mimetismo tipico dei reati contro la Pa in aree nelle quali la forzata “convivenza” tra apparato pubblico e criminalità organizzata è stata caratterizzata negli ultimi anni da un enorme flusso di finanziamenti pubblici, nazionali o comunitari.
Tabella nr. 4: Principali reati conto la Pubblica amministrazione.
Reati consumati nelle Regioni Ob. Convergenza.
Anni 2004 – 2007
2004
2005
2006
2007
Italia
Ob.Conv.
Italia
Ob.Conv.
Italia
Ob.Conv.
Italia
Ob.Conv.
corruzione
(art. 318, 319, 320 cp)
158
34
126
48
112
46
128
65
concussione
(art. 317 cp)
138
55
115
46
80
40
130
59
Truffa per il …
ex art.640 bis
824
468
893
496
2.725
515
778
401
Indebita percezione
(art. 316 ter cp)
462
169
598
217
858
210
393
194
Fonte : MiPaI, Servizio Anticorruzione e Trasparenza, I Rapporto al Parlamento, marzo 2009, su dati ministero dell’Interno
La visualizzazione dell’andamento delle denunce in Calabria, Sicilia, Campania e Puglia (le regioni dell’Obiettivo Convergenza dei Fondi Strutturali 2007-2013), rende immediatamente l’irrisorietà di quelle per il delitto di corruzione a fronte della estrema rilevanza, invece, di quelle per concussione.
L’esiguo numero di denunce per corruzione, se osservato in relazione al rilevante numero di scioglimenti di Enti locali e Aziende sanitarie per i condizionamenti mafiosi, porta in rilievo il problema di quell’area “grigia” nella quale opera chi agevola, aiuta, non vede l’attività degli “amici degli amici”, in una neutralità indifferente spinta, a volte, fino ad una latente o conclamata complicità.
Inatteso potrebbe sembrare il dato relativo alle denunce relative ai delitti di truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche e di indebita percezione di erogazioni ai danni dello Stato (artt. 640 bis e 316 ter c.p.), riguardando un’area geografica prioritariamente interessata da fondi, misure e finanziamenti per lo sviluppo: circa la metà di questi delitti trova il suo momento consumativo e più grave altrove.
I valori registrati in queste quattro Regioni sono stabili e debolmente significativi relativamente al picco registrato su scala nazionale nell’anno 2006: anche in questa annualità, infatti, le denunce registrate per questi due reati sono rimaste attestate sui livelli degli anni precedenti e seguenti.
Una situazione certamente anomala, tenuto conto che risulta difficile credere ad un disinteresse – da parte di queste associazioni delinquenziali territorialmente caratterizzate, di queste “conglomerate” di attività illecite – verso questo business criminale che, se pur presenta un Roe, un ritorno sull’investimento, inferiore a quello del traffico di stupefacenti e di altre “merci” ad alto valore aggiunto, propone comunque flussi finanziari interessanti.
Ma “noi italiani siamo fatti così”?
Frase ricorrente, spesso abusata, per spiegare e per giustificare le nostre anomalie, che ha fatto la fortuna di Luigi Barzini e del suo Gli Italiani.
Tante nostre bizzarrie e tante nostre debolezze come vezzi di un popolo che aveva scelto di essere un po’ speciale, nel quale il ritardo del Mezzogiorno era spiegato come un saggio rifiuto, degno di un filosofo antico, del capitalismo industriale. Così le manchevolezze, le colpe, i vizi nazionali sono stati considerati non per quel che erano, ma come peculiarità e caratteristiche amenità di un popolo che, pari ai primi sulla scena internazionale, era solo un po’ diverso dagli altri.
Da un po’ di tempo, però, nota Piero Ottone in Italia mia, l’espressione che un tempo era titolo di gloria, “all’italiana”, sembra essere entrata in crisi, appare sempre di più come una condanna senza appello, a segnare una cosa fatta male, con approssimazione, inganno, inefficienza.
Appare, quindi, necessario uscire, e lo conferma l’ininterrotto dibattito, dalla mera ripetizione della litania laica dei problemi, che non ha consentito in passato e non permette oggi di individuare percorsi risolutivi, ma finisce con aggravare progressivamente il senso di impotenza nell’ambito delle Istituzioni e la frustrazione delle aspettative dei cittadini, rafforzando il paradigma – delineato dal prof. Diamanti – del “governo indeciso”, con la politica che rischia di assomigliare sempre più ad un sovrano spodestato, utile solo per le rappresentazioni, per la raccolta e l’organizzazione delle affettività, delle identità, delle appartenenze, ma non più luogo della decisione, del “se” e del “perché” le cose debbano essere fatte per rispondere a questo disagio, reale o simbolico ed altre volte manifesto.
Uscire da questa situazione perché tardività e non adeguatezza della risposta, poco importa se effettive o immaginarie, si traducono quotidianamente in un messaggio rovesciato, paradossalmente e sostanzialmente anti-giuridico, che, mentre produce una mortificazione delle aspettazioni e dei desideri della popolazione, vanifica gli sforzi prodotti dalla parte sana della Pubblica amministrazione, di quelle donne e di quegli uomini delle Istituzioni che operano quotidianamente, e con grande abnegazione, e che rischiano di ritrovarsi soli e sempre più aggrediti e avvolti da avvilimento e costernazione: il “non aver fatto nulla è certo un terribile vantaggio – scriveva in uno dei suoi noti aforismi Antoine Rivaroli detto il Conte di Rivarol – ma non bisogna abusarne”.
Il “quieta non movere et mota quietare” oggi sembra non bastare più di fronte al frequente riproporsi di indagini su amministratori e funzionari pubblici.
Servono soluzioni sistemiche e non sintomatiche, perché l’abituale “pezza” che si mette dopo, con l’approntamento del “pronto soccorso” o dell’“ospedale da campo” allestiti affannosamente per intervenire sulla situazione problematica che è esplosa, contribuisce ad alimentare una sensazione di inadeguatezza, reale o percepita, sia in termini di contenuti che di timing degli interventi, della risposta istituzionale.
Con due conseguenze: ulteriore sfiducia nelle Istituzioni, mentre si erode quel poco di capitale sociale che resta fino all’eclissi della legalità; ancora più spazio alla logica della lamentazione, abitudine antica e temporalmente stratificata, e agli isterismi collettivi che non servono e vanno condannati perché finiscono con l’alimentare ulteriore sfiducia senza contribuire alla soluzione dei problemi.
Fallimentari sono stati, poi, gli esiti di alcuni interventi sistemici mirati ad incidere anche su questo sentimento generalizzato di sfiducia. È sufficiente pensare a quel fiume in piena di circolari, direttive, norme di standardizzazione, procedure, protocolli e istruzioni particolareggiate, che avrebbero dovuto esprimere con geometrica precisione la bontà dei servizi offerti agli utenti: un’ipertrofia del sistema legislativo che si è rivelata ben peggiore del male che si voleva curare. L’unico risultato conseguito è stato, infatti, diametralmente opposto a quello perseguito: anziché ottenere la rassicurazione del cittadino è stata gravemente compromessa l’attività degli addetti ai lavori, affogati, almeno per metà della loro giornata lavorativa, in adempimenti burocratici che, paradossalmente, hanno finito con il rafforzare la responsabilità più verso i revisori che nei confronti degli utenti.
Un fenomeno che ha finito con l’alimentare la crescita di una serie di concrezioni burocratiche, con sovrapposizione e duplicazione di competenze che generano deresponsabilizzazione e, alla fine, impunità.
Mentre Marchionne – l’immagine ha colpito molto i commentatori americani – ha potuto rinnovare la Fiat allontanando tutti quei settori dirigenziali che erano cresciuti a dismisura come un colesterolo a ingombrare le vene dove circola il sangue del lavoro operaio, la situazione appare qui più complessa: l’assenza di intima coerenza tra le architetture istituzionali di un Paese unitario, tra un governo nazionale espressione di una democrazia parlamentare pur con tutte le carenze e i difetti di una pessima legge elettorale, e una forma presidenziale o semipresidenziale in periferia, ha reso difficile – secondo il Cons. Antonio Maccanico, Corruzione da sistemi elettorali – una strutturazione efficace delle forze politiche e una crescita di una classe politica moderna.
Allo stesso modo, non serve nemmeno sostituire la mannaia dell’indignazione al bisturi della prudenza, operazione che può essere un’aspirazione psicologicamente comprensibile, ma mai un’utile e razionale scelta politica: invero, appare necessario, non tanto prescrivere, esortare, mettere in guardia, quanto iniziare a rimuovere l’accennata indifferenza emotiva, in modo che non si atrofizzi il senso della responsabilità e non si scivoli nell’interiorizzazione di quel sentimento nefasto che è l’ineluttabilità.
Sembra mancare, qui, prima di tutto, quella cultura della responsabilità che poggia sull’interiorizzazione dell’indispensabilità del perseguimento del bene comune e che, per affermarsi e non rimanere mero esercizio vocale, deve essere alimentata da un forte, comune, condiviso senso etico.
Il problema che è inutile camuffare, è quello di trasformare lo Stato guardiano, nel quale tutti speriamo, in uno Stato etico, di cui molti diffidiamo.


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