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Ecologia delle ineguaglianze

Le “rivolte della fame” che nel 2008 hanno colpito un gran numero di paesi in via di sviluppo sono una prefigurazione di quel che sarebbe il mondo se avessero luogo gli effetti catastrofici del cambiamento climatico. L’analisi sviluppata dall’economista e filosofo Amartya Sen riguardo al rapporto tra carestia e democrazia è qui particolarmente illuminante per comprendere il legame tra ripartizione delle risorse e democrazia. Egli scrive: “ci può essere una carestia anche senza una grande (o addirittura nessuna) diminuzione dell’offerta alimentare totale, perché alcuni gruppi subiscono un’improvvisa perdita di potere sul mercato”. Il concetto centrale del suo ragionamento è quello dei “diritti di accesso” accordati o meno alle popolazioni più fragili.

La ben nota conclusione di Sen è di assoluta attualità: “Non c’è mai stata una carestia in una democrazia multipartitica funzionante”. Per il solo fatto che esistono elezioni, partiti di opposizione, canali di espressione pubblica aperti alla critica del pubblico, in una democrazia l’onda d’urto della carestia giunge a scuotere anche i dirigenti politici e l’élite al potere, contrariamente a quel che accade in una dittatura. La democrazia ha dunque, secondo Sen, un ruolo di “protezione” contro gli effetti delle catastrofi naturali e sarebbe un errore considerare questa analisi valida soltanto per i paesi poveri o in via di sviluppo.
Così, nelle società ricche, i senza tetto non muoiono né di fame né di freddo, ma generalmente di malattie opportuniste legate alle loro condizioni di vita, e cioè alla povertà. In molti paesi sottosviluppati, l’assenza di diritto di accesso alla sanità e la mancanza di infrastrutture pubbliche fanno correre un grave pericolo al settore più vulnerabile della popolazione, in caso di eventi catastrofici. La stragrande maggioranza delle vittime dell’uragano Katrina, che ha colpito New Orleans nel settembre del 2005, non è morta durante la tempesta per via della violenza degli elementi, bensì dopo il suo passaggio, per colpa dei soccorsi per nulla rapidi e sufficienti.
Analogamente, gli effetti disastrosi del cambiamento climatico non possono essere ridotti a semplici “catastrofi naturali” potenziali. Si tratta piuttosto di catastrofi sociali in divenire la cui maggiore o minore gravità dipenderà dal grado di avanzamento democratico della società che dovrà affrontarle. In occasione della canicola del 2003, in Francia e più in generale in Europa si è potuta osservare una misura dell’importanza delle infrastrutture sanitarie a fronte dell’innalzamento violento e durevole delle temperature. Gli individui di uno stesso paese e i paesi tra loro sono necessariamente diseguali nell’adattarsi al cambiamento climatico.
I dati raccolti dal Centro di ricerca e di studi di epidemiologia dei disastri dell’università cattolica di Lovanio mostrano che, a fronte di un numero annuo di disastri naturali (inondazioni, siccità, eruzioni vulcaniche ecc.) in spettacolare aumento a partire dagli anni settanta, passato da circa 50 a quasi 500, il numero delle vittime di tali disastri è diminuito proporzionalmente al progredire dello sviluppo e della democrazia. Allo stesso modo, uno studio dei dati sull’argomento per il periodo
1984-2004 illustra come, nonostante i paesi ricchi siano stati colpiti da un numero di disastri naturali paragonabile a quello dei paesi poveri, a parità di popolazione, le vittime nei paesi poveri sono state deplorevolmente maggiori alle 900.000 unità, contro le 75.000 dei paesi più ricchi.15 Per concludere, le dieci “catastrofi naturali” più grandi del Novecento si sono verificate in Cina e in India, costituite per metà da fenomeni di siccità.
Il livello di sviluppo economico e umano rappresenta dunque il parametro chiave dell’impatto dei disastri cosiddetti naturali. Pertanto bisogna assolutamente ridurre le ineguaglianze su questa materia. Il rapporto dell’IPCC del 200716 è una chiara prova di come gli effetti del cambiamento climatico possano essere compresi in maniera pertinente solo tenendo conto dell’interazione tra “sistemi terrestri” (variazione di temperatura, livello delle precipitazioni e dei mari, eventi estremi, ecosistemi, risorse idriche) e “sistemi umani” (governance, tasso di istruzione, sanità, equità, demografia, preferenze socioculturali, sistemi di produzione e consumo, tecnologia, commercio).
“Le capacità di adattamento ai cambiamenti climatici” osservano gli esperti delle Nazioni Unite “sono intimamente legate allo sviluppo economico e sociale, mentre quest’ultimo non è ripartito in modo equo tra le società e al loro interno”. Così, secondo l’IPCC, l’Africa, responsabile di meno del 4% delle emissioni di gas a effetto serra, a partire dal 2020 conterà dai 70 ai 400 milioni di persone esposte a penurie d’acqua causate dal cambiamento climatico. La lotta contro queste ineguaglianze socio-ecologiche comporta due azioni coordinate: una lotta risoluta contro le ineguaglianze economiche e umane esistenti, e una migliore comprensione delle esigenze dello sviluppo umano.
Per una decrescita delle ineguaglianze
Il rapporto Brundtland (1987) osservava in maniera assai profonda che “la nostra incapacità di promuovere un interesse comune nello sviluppo sostenibile è molto spesso il frutto della relativa indifferenza verso la giustizia economica e sociale, nell’ambito delle nazioni e nei rapporti tra esse”. Quel ch’è certo è che il formarsi di ineguaglianze nelle nostre democrazie di mercato è inevitabile. Nella sua Richard T. Ely Lecture, l’economista del lavoro Finis Welch17 si spinge oltre: Tutta la scienza economica procede dalle ineguaglianze. Senza ineguaglianze di priorità e di capacità, non ci sarebbero né commercio, né specializzazione, né guadagno tratto dalla cooperazione. Insomma, non ci sarebbe una scienza economica e [tutti gli economisti] sarebbero occupati a vendere polizze d’assicurazione. A dire il vero, nemmeno quello, perché non ci sarebbe niente da assicurare!
Le ineguaglianze possono anche essere teoricamente augurabili. In un mondo astorico, dove la diversità delle condizioni iniziali degli individui non comporta alcun effetto, e dove il passato non determina né il presente né l’avvenire, le ineguaglianze sono un potente motore del progresso economico e sociale. Si tratta del mondo perfetto della teoria dei mercati in cui le ineguaglianze attuali non impediscono in nulla l’eguaglianza dei destini. In questa visione astorica, le ineguaglianze e la loro crescita sono vettori di una mobilità sociale ascendente, indicatori di nuove opportunità. Ma un mondo senza attriti non esiste e le ineguaglianze ostacolano in lungo e in largo le opportunità degli individui, soprattutto nel campo dell’accesso alle risorse naturali. La migliore formulazione dell’imperativo della decrescita delle ineguaglianze è quella di John Stuart Mill (1848). Per cominciare egli si scaglia contro i classici, che, come Ricardo, non concepiscono altro progresso umano se non quello materiale. “Verso quale punto tende in definitiva la società col suo progresso economico?” si domanda Mill. Nella sua risposta è vicino agli sviluppi, sopra evocati, di Keynes: “La condizione migliore per la natura umana è quella in cui, mentre nessuno è povero, nessuno desidera di divenire più ricco, né deve temere di essere respinto indietro dagli sforzi degli altri per avanzare”.
Ma Mill supera il Keynes delle Prospettive economiche per i nostri nipoti18 perché, contrariamente a lui, pone la riduzione delle ineguaglianze al centro della propria riflessione, denunciando il semplice aumento della produzione e dell’accumulazione che, “in se stesse sono di poca importanza, finché l’incremento della popolazione o qualunque altra causa impedisca che la massa del popolo ne tragga vantaggio”. E aggiunge:
Se la bellezza che la terra deve alle cose venisse distrutta dall’aumento illimitato della ricchezza e della popolazione, al semplice scopo di poter dare sostentamento ad una popolazione più numerosa, benché non migliore, allora io spero sinceramente, per amore della posterità, che questa sarà contenta di rimanere stazionaria, molto tempo prima di esservi obbligata dalla necessità.
Mill, certamente, resta prigioniero della visione maltusiana e raccomanda in particolare di ridurre “prudentemente” la dimensione demografica. Ma la sua intenzione di fondo si rivela valida: lo stato regolare al quale si dovrebbe giungere è quello in cui le ineguaglianze sono accettate perché accettabili.
La decrescita cui bisogna mirare qui e ora è la decrescita delle ineguaglianze.


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