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Il grande gioco

Nell’attuale contesto geopolitico ed economico, niente sarà più come prima. La chiusura della prima fase della globalizzazione, che è iniziata poco prima della caduta del Muro di Berlino nel 1989, ha trasformato le correlazioni strategiche e i potenziali geoeconomici di tutti i Paesi maggiori, e ha ridisegnato nuove aree nei Paesi tradizionalmente secondari nel ciclo dei poteri militari e dei livelli militari e strategici del globo. Non ci riferiamo solo alla Cina e all’India, emerse come potenze economiche che, ancora, ricordano la vecchia definizione della Germania Federale durante la Guerra fredda, “nani politici e giganti economici”,
ma al sudest asiatico, che sta imitando, con le caratteristiche sue proprie, lo sforzo cinese delle “Quattro Modernizzazioni” di Zhou Enlai e Deng Xiaoping, che è stato un “grande balzo in avanti” come quello organizzato da Mao Zedong con in più il supporto della internazionalizzazione dei mercati finanziari e delle merci; ci riferiamo all’Asia centrale, asse del nuovo canale petrolifero e gasiero mondiale, e all’America latina, che sta anch’essa ripercorrendo un sentiero di sviluppo economico e di proiezione geopolitica che esce dalle logiche tradizionalmente antiamericane dei socialismi nazionali, mentre i produttori petroliferi dell’ area sudamericana si riallineano sulle posizioni dell’”ala dura” dell’Opec.  
L’economia non sostituisce la politica, e la politica stessa si ricollega alle grandi linee di trasformazione del mondo in modi diversi, spesso non monetari e, talvolta, culturali. La demografia, per esempio, può essere considerata come un vettore di trasformazioni sociali e politiche che vanno ben oltre la semplice riforma dei sistemi pensionistici e investono l’equilibrio delle masse geopolitiche, tra oriente ed occidente, i sistemi politici e della rappresentanza democratica, gli stessi comportamenti sociali e quelli che Roland Barthes chiamava i “miti d’oggi”. Finita l’epoca della dominanza dell’economia sulla politica, delineare scenari coincide spesso con la stessa procedura decisionale, dato che nessuna classe dirigente, oggi, può elaborare normative o permettersi scelte geopolitiche credendo che il mondo, nella vigenza di quelle norme, manterrà gli stessi modelli che si presentavano all’inizio del processo decisionale. Una nuova politica deve divenire essa stessa un modello di scenario globale e prevedere nelle sue decisioni tutti quegli effetti che, nella tradizionale democrazia rappresentativa, venivano ritenuti immodificabili o secondari. La decisione politica, quindi, come tecnica di scenario globale, e la rappresentanza degli interessi legittimi come scelta e valutazione dei risultati a medio-lungo termine. Una nuova tecnicità, non tecnocratica, della politica moderna, dove le scelte tradizionali e necessarie dei governi divengono, fin dall’inizio, termini di uno scenario globale che si cerca di realizzare, senza la tirannia dei risultati immediati che ha caratterizzato le democrazie occidentali nella lunga stagione della Guerra fredda e nella caotica fase della prima globalizzazione, oggi palesemente terminata. 
La politica sarà sempre più un meccanismo di forte coesione sociale tra gruppi sociali sempre più distanti ed eterogenei tra di loro, non solo per interessi ma anche per stili di vita. La politica come rappresentanza di interessi che, peraltro, il sistema politico non determina più direttamente, e che durano più di una fase elettorale, è ormai alle nostre spalle. E infatti quel fenomeno nuovo e, spesso, raffinatissimo che è il jihad globale veicola la propria militanza, su internet o nelle sue cellule, attraverso meccanismi di creazione o attivazione dell’identità islamica radicale, non rappresenta più, come i vecchi movimenti, anche rivoluzionari e terroristici del vecchio Terzo Mondo, “gli sfruttati” o i “dannati della terra”. Il nuovo mondo sarà, poi, sempre più determinato dallo scontro politico-militare e strategico. L’era del peacekeeping, che ha caratterizzato l’ottimismo della fase immediatamente successiva alla Guerra fredda, è anch’essa giunta al termine. La guerra è nel nostro futuro, e non mi riferisco solo al contrasto al terrorismo jihadista. Se i vecchi scenari, ereditati dall’universo strategico bipolare, sono ancora presenti con il loro potenziale destabilizzante, è altresì vero, e questo volume lo dimostra nell’insieme delle sue analisi, che le nuove aree di frizione, fuori dai vecchi scenari, stanno divenendo una realtà nel Pacifico sudorientale, nell’Africa subsahariana, nell’area che collega l’Asia centrale al sistema del Golfo Persico, probabilmente anche nell’America centrale ed in alcune aree tra Anatolia e Heartland eurasiatico, che è il luogo, peraltro, dove nacque la Guerra fredda, nel momento in cui Stalin mostrava di superare la “logica di Yalta” tra Armenia e Iran. Queste due aree potrebbero essere destabilizzate da un fenomeno simile ad AI Qaeda o da una “sottomarca” del gruppo di Bin Laden, ma è probabile anche che queste zone di nuovo attrito tra vecchie superpotenze in fase declinante e nuove medie potenze che sanno di poter osare, in un tempo relativamente breve, l’inosabile, saranno gestite da gruppi autoctoni non necessariamente a sfondo religioso, ma certamente con forti tonalità antioccidentali. Ma l’occidente è preparato a un confronto strategico che implichi I’uso della forza, oltre il peacekeeping, e con geometrie di alleanza ben più variabili di quelle sperimentate finora? È lecito dubitarne. È sovrano chi raccoglie la corona caduta e il pessimismo sul futuro dell’occidente cosi come lo abbiamo conosciuto serpeggia, senza esplicitarsi in uno specifico scenario.  
E l’Italia, in questo contesto? Ci sembra di capire, mettendo in parallelo i tanti luoghi cruciali del libro sul nostro Paese, che siamo, per dirla con il Manifesto dei futuristi, sul limitare estremo dei secoli. O rileggiamo la nostra posizione strategica a partire dal Fianco Sud della Nato, come Paese che ricollega il Medio Oriente e il Maghreb all’Europa e ai suoi Balcani, e ha peraltro la forza propria, le “armi proprie” di Machiavelli, di decidere, almeno in alcuni casi, da solo, oppure il nostro sistema politico, produttivo e culturale potrebbe divenire marginale anche nel tradizionale contesto europeo. Inoltre, l’Italia può giocare le sue carte come tramite tra l’Ue e le altre aree geopolitiche, non solo sul piano economico, che abbiamo troppo isolato da contesti dell’irradiamento di potenza, ma anche su quello strategico, politico, militare, culturale. Un’Italia catalizzatrice di nuove alleanze, in Medio Oriente e in Asia centrale, nel Maghreb e nel quadrante dell’Europa centrale, dunque. Sarà un nuovo e originale grande gioco. Ma occorrerà iniziare a pensare la politica come parte della strategia globale, non viceversa, e vedere le decisioni come parti di uno scenario che cresce e si modifica armoniosamente, un organismo, non considerarle brevi input giuridici che potrebbero apparire, in futuro, grida manzoniane. Pensare la politica come strategia, I’economia come sistema di beni, servizi, stili di vita e modelli culturali, la politica militare come asse della decisione in tempo di pace, la pace come sistema di relazioni complesse, non una semplice assenza della guerra, e l’economia come la produzione di un intero modo di vita.


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