Il Mediterraneo è un mercato, non un confine. La frase dello storico Fernand Braudel, studioso dell’unità del bacino del Mare Nostrum, è ancora valida. Ma i mercati sono anche, come ha insegnato Lindblom, strutture politiche e tutte le grandi organizzazioni, statuali e non, hanno una dimensione che implica la loro sicurezza, la difesa, la politica estera.
La Cina opera nell’ambito del Mediterraneo nel quadro di una penetrazione economica e strategica di grande rilievo. Pechino, dopo la fine della guerra fredda, ha iniziato ad operare nell’area di Durban, nel Sud Africa, e in quello di Mombasa, in Kenya. Due aree che sono essenziali nella gestione del petrolio angolano e nigeriano, mentre quella stessa zona estrae il 15% del petrolio impostato dagli USA.
Il sistema geoeconomico cinese è interessato ad una integrazione tra Nord e Sud del quadrante africano, in cui l’uno sostituisce l’altro,a costi competitivi, quando emergono crisi strutturali nelle rispettive aree, e Pechino è soprattutto interessata alla acquisizione, in termini di mercato del venditore, del petrolio africano, che non è alternativo, per dimensione, a quello estratto nel Medio Oriente, ma è vitale per lo sviluppo economico cinese e, soprattutto, è destinato ad essere quello che “farà la differenza” quando i sistemi estrattivi dell’Arabia Saudita e dell’Iran diverranno sempre meno costo-efficienti e privi, quindi, di una correlazione geopolitica utile. Tanto meno petrolio si estrae, tanto più diminuisce il leverage geopolitico degli idrocarburi e, di conseguenza, l’assetto interno e regionale delle medie potenze mediorientali. Occorre che, malgrado la tradizionale tensione al breve periodo dei mercati globali, le strutture della sicurezza e della politica estera italiana e NATO si pongano queste domande in tempo, prima che Cina o India si pongano nei mercati marginali del petrolio o del gas con potere di veto geopolitico rispetto agli scambi con l’area mediterranea ed europea.
Proviamo a fare una ipotesi: se l’Iran si espande nell’area della Shangai Cooperation Organization, in attesa che il nodo afghano venga a districarsi definitivamente, allora è probabile che il sistema petrolifero sciita si integri rapidamente con quello cinese e con le aree gaziere dell’Asia Centrale, nelle quali si incontrerà con gli interessi della Federazione Russa, che è bloccata nella zona dalla politica ucraina e dal jihad ceceno. Se invece Teheran verifica durezze strategiche impreviste nella zona, allora sarebbe possibile la ricostruzione di un nesso strategico e geoeconomico tra Iran e Arabia Saudita, che comprende gli Emirati del Golfo e che ambirebbe ad una secessione geoeconomica dall’UE, dal Mediterraneo occidentale e dagli USA per rivolgersi ai mercati in crescita dello Hearthland eurasiatico.
Quindi: a) o una integrazione geoeconomica debole, attraverso il Mediterraneo, con le economie in ascesa dell’oriente indo-cinese, oppure b) una ricostruzione della relazione USA e UE con l’Africa, mercato marginale ma essenziale dei petroli e punto di sviluppo di quei mercati che, stabilizzatasi politicamente la situazione, potrebbero essere talmente grandi da sostenere un ciclo di sviluppo euro-americano della stessa entità e della stessa durata che ebbe il ciclo di crescita coloniale della Gran Bretagna tra il 1815 e il 1945.
Ovvero: la Cina entrerà stabilmente nel Mediterraneo per fare due operazioni, quella di utilizzare l’area meno sviluppata del Mare Nostrum per penetrare meglio, e con un margine maggiore, i mercati della UE, e quindi per operare economie di sostituzione esterne nei confronti della Unione Europea, e in secondo luogo per utilizzare in loco le materie prime a basso prezzo che, in modo sostanzialmente monopolistico, la Cina estrarrà dal continente africano.
Due operazioni che presuppongono che l’UE, e in particolare l’Italia, si facciano carico delle diseconomie strutturali dei paesi del Maghreb (la demografia, lo squilibrio dei conti pubblici, gli investimenti produttivi e infrastrutturali). Una soluzione potrebbe essere quella, che interessa anche a Pechino, di cooperare con agenzie ad hoc nell’area: una distribuzione meno irrazionale della manodopera africana in eccesso, una cooperazione sugli investimenti strutturali, una sequenza di accordi sulla distribuzione dei mercati che protegga temporaneamente, con barriere non tariffarie, alcuni settori industriali maturi UE dall’attacco cinese nel Mediterraneo mentre permette a Pechino accessi di favore in altre filiere produttive.
La Cina cerca nel Mediterraneo e nel Grande Medio Oriente tre cose: l’espansione dei suoi mercati in aree ancora non penetrate direttamente da USA e UE, la raccolta delle materie prime che servono per il suo sviluppo, la presenza strategica e militare.
La Cina potrebbe stare in Africa, oltre alle sue attuali dislocazioni nell’area, per fornire, insieme a capitali UE e, in qualche caso, USA, le grandi linee infrastrutturali: il costo della sua forza-lavoro, la combinazione dei suoi fattori di produzione, la liquidità a breve di cui dispone ne fanno un partner ideale per le grandi reti: un sistema di autostrade e ferrovie, le linee di controllo e sicurezza civile, gli aeroporti, i porti marittimi, nei quali è peraltro già interessata.
Gli USA potrebbero investire nel sistema agricolo e nella sua innovazione, oltre che nella formazione e nella selezione delle nuove classi dirigenti, sospettose con i “colonialisti” europei ma da sempre amiche degli USA nati da una rivoluzione contro il colonialismo britannico.
L’UE potrebbe fornire reti di Piccola e Media Impresa, passando oltre, quando la situazione lo permetta, alla vecchia logica del trasferimento in Maghreb e in Africa Centrale delle sue vecchie industrie mature o addirittura decotte, che allungano i tempi della loro sopravvivenza con nuovi mercati a basso prezzo locali e l’abbattimento dei costi della forza-lavoro, e quindi portare nel Mediterraneo meridionale e orientale, oltre che nell’Africa sub sahariana, industrie capaci di mercato anche in UE e in USA, e in Cina, mercati che potrebbero essere autonomamente raggiunti dalla nuova infrastruttura portuale alla quale facevamo riferimento supra.
La sicurezza strategica dell’area è il principale asset geoeconomico, e l’economia viene dopo, non prima le necessità della sicurezza globale, che integrano anche la protezione economica, finanziaria, demografica e per le materie prime di ogni Paese UE. Per l’Italia che commercializza con i paesi del Mediterraneo la metà (55 miliardi di Euro) di quanto scambia con l’intera area asiatica, occorre pensare in contemporanea la sicurezza, la strategia globale, la protezione dei mercati e delle eventuali proprie posizioni dominanti, la tutela dei passaggi energetici e la programmazione degli investimenti futuri[1].
In questo contesto, l’Italia potrebbe utilizzare in termini geoeconomici l’Union pour la Méditerranée proposta dalla Francia neogollista. L’”Unione” è nata con obiettivi di unificazione delle politiche sulla protezione ambientale, che è e sarà in futuro il maggiore sovra costo produttivo nei paesi sviluppati, e permette una regolamentazione non tariffaria delle concorrenza internazionale, e la creazione e gestione delle “autostrade del mare” che, in un contesto mediterraneo, implica la gestione diretta e indiretta di gran parte delle SLOCs globali.
Se l’Italia, in questo contesto, potesse gestire una nuova politica della divisione non concorrenziale tra i paesi dell’UE delle aree di intervento e delle filiere produttive da “esportare” nel Mediterraneo del Sud e dell’Est, e potesse inoltre gestire una politica di stabilizzazione monetaria delle ragioni di scambio bilaterali e multilaterali tra le due sponde del Mare Nostrum, e se infine l’Italia potesse impostare una politica di collaborazione sulla sicurezza dei mari regionali con i Paesi mediterranei che non fanno parte della NATO, questi sarebbero dei successi straordinari per il nostro sistema paese economico e per la nostra sicurezza militare.
Senza il Mediterraneo, l’Italia non solo non avrà sviluppo, ma non potrà nemmeno mantenere la propria identità politico-culturale. Come diceva Aldo Moro, nessuno è chiamato a scegliere tra l’essere in Europa e l’essere nel Mediterraneo, poiché l’Europa intera è nel Mediterraneo.