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Cambiamo la Costituzione

E l’ennesima fase in cui si parla di riforme. Un dibattito che è iniziato praticamente da quando è stata approvata la Costituzione. Praticamente nulla si è fatto.
Che sia la volta buona? Nessuno può dirlo.
Questo interrogativo politico grande quanto un macigno non può però offuscare la fondamentale domanda di merito: la Costituzione, in particolare nella parte relativa all’organizzazione del governo, alle camere, alle garanzie, allo statuto dell’opposizione, ecc. richiede o no di essere ripensata profondamente? Oppure tutto sommato, abbiamo ormai trovato un equilibrio. E va bene così.
Lo dico senza giri di parole, con la passione di chi vede il proprio paese avvitarsi in un lento declino agonico, mentre le infinite opportunità che gli eventi ci mettono di fronte in questa nuova fase epocale della storia umana rischiano di essere mancate. Non so quanti popoli come quello italiano hanno quelle doti di flessibilità, acume, intraprendenza, mobilità, adattabilità, genio che servono proprio nell’epoca della grande globalizzazione e dei mutamenti repentini. Eppure, siamo paralizzati dall’eterno presente della nostra condizione, prigionieri di un’emergenza infinita.
Da questa inerzia non si esce senza una riforma profonda, che ci doti delle istituzioni di cui un grande paese avanzato ha bisogno. E che non abbiamo.
Per questo la Costituzione va cambiata.
La nostra Carta, soprattutto sulla forma di governo, è nata sotto l’imperativo consociativo e ciellenista: assicurare un governo (e un sottogoverno) condiviso in un paese nel quale, come ricordò Calamandrei, non c’era nemmeno un’idea condivisa del concetto di democrazia, conteso tra la democrazia progressiva di Togliatti e la democrazia liberale di altri. E il dibattito suscitato dalle dichiarazioni del Ministro Brunetta sulla possibile riforma dell’art. 1 Cost. ce lo ha ricordato. Perché la formula che l’Italia è una repubblica democrativa “fondata sul lavoro” fu il classico compromesso tra la posizione liberale e quella comunista che, con la proposta Togliatti, avrebbe voluto l’art. 1 riferito ad una “Repubblica di lavoratori”, sul modello dell’art. 1 della Costituzione dell’Unione sovietica del 1936.
Quella della Costituente, dunque, fu, all’epoca, una scelta saggia per evitare un guerra civile nel contesto del conflitto postbellico tra occidente e paesi del socialismo reale, appeso all’equilibrio geopolitico sul quale incombeva la cortina di ferro. Leopoldo Elia nella lectio magistralis su Alcide De Gasperi e l’Assemblea Costituente, tenuta a Pieve Tesino il 19 agosto 2005, ricordò le preoccupazioni che indussero il leader democristiano ad intervenne sui costituenti più insofferenti verso soluzioni istituzionali eccessivamente blande e compromissorie. “Tale atteggiamento del Presidente del Consiglio – ricordava Elia – derivava dalla situazione di incertezza circa l’esito delle successive elezioni politiche [quelle del 18 aprile 1948]” e dal “timore di rafforzare troppo il futuro vincitore di questa decisiva competizione elettorale”.
Ma proprio per questo oggi è insensato conservare quella scelta così come fu fatta.
D’altronde i protagonisti lo sapevano già all’epoca. Tra i più lucidi sempre Calamandrei il quale non ebbe esitazione a dichiarare che “Il Governo parlamentare, come è stato accolto nel progetto [di costituzione], è un vecchio sistema (…). Per questo noi avevamo sostenuto durante la discussione alla Seconda Sottocommissione (…), qualche cosa che somigliasse ad una repubblica presidenziale o per lo meno a un governo presidenziale, in cui si riuscisse, con appositi espedienti costituzionali, a rendere più stabili e più durature le coalizioni (…). Ma di questo, che è il fondamentale problema della democrazia, cioè il problema della stabilità del Governo, nel progetto non c´è quasi nulla”.
E’ la distanza da quel contesto che richiede cambiamenti profondi. Ecco perché il più grande omaggio che noi possiamo fare a quelle istituzioni è consegnarle al contesto epocale che le ha prodotte. Quelle istituzioni ci hanno preservato dal rischio incombente di precipitare nelle avventure politiche di stampo autoritario vissute da tutti i paesi a noi vicini lungo l’asse del Mediterraneo: Portogallo, Spagna, Jugoslavia e Grecia. Quelle istituzioni hanno consentito l’assorbimento di spinte rivoluzionarie e reazionarie. Hanno permesso l’inclusione di grandi masse di cittadini nella vita dello Stato e il radicamento dei valori democratici.
Ma quella stagione geopolitica si è chiusa nel 1989. E da allora è iniziata un’altra fase, completamente diversa. Quella di un mondo sempre più globalizzato e competitivo, in cui tutti i sistemi-paese si sono dovuti convertire a nuove sfide. Una fase in cui le domande sociali e la complessità sono aumentate in modo esponenziale. E si richiedono decisioni sempre più rapide e articolate. Anche perché si è parte di organismi e alleanze regionali e mondiali, che richiedono interlocutori affidabili e reattivi.
L’Italia ha già pagato un caro prezzo per la propria condizione storica di paese alla frontiera della guerra fredda. Ha dovuto attendere assai più degli altri prima di avere una democrazia dell’alternanza. Ha dovuto subire i costi dell’instabilità e supplire all’assenza di dispositivi decisionali adeguati con soluzioni che eludono ampiamente lo spirito costituzionale. Tanto che oggi viviamo la condizione di un paese la cui Costituzione organizza istituzioni di governo deboli, al limite dell’impotenza, mentre la pratica costituzionale ha prodotto un assetto in cui si compiono continue forzature per evitare la paralisi decisionale. E non si tratta dell’effetto di qualche recente velleità cesarista, come qualcuno vorrebbe far credere. Si tratta di un processo che dura da quarant’anni. Fa impressione leggere oggi, ad esempio, i resoconti della seduta del 25 luglio 1978 della Camera dei Deputati, nella quale il Presidente Ingrao “richiama l’attenzione sull’incidenza che il numero divenuto così grande dei decreti-legge ha sulla programmazione dei lavori parlamentari”. 1978! E la degenerazione era già cominciata da anni.
Un paese non può vivere quaranta o cinquant’anni in emergenza costituzionale. Deve prendere atto che lo schema costituzionale vigente è figlio di esigenze storiche ormai sorpassate. In cui il non decidere spesso era considerato preferibile che decidere a maggioranza.
Per questo non ha nemmeno senso l’idea portare indietro le lancette dell’orologio costituzionale. Sarebbe come l’invocazione di “ritorno allo Statuto” lanciata nel 1897 da Sidney Sonnino il quale sperava che, riaffermando lo spirito originario della Carta del 1848, avrebbe arginato il processo di democratizzazione che invece la storia stava imponendo all’Italia. 
Oggi la storia ci impone di abbandonare norme, usi, convenzioni e consuetudini del passato e di superare il modello parlamentarista di stampo ottocentesco. Einaudi lo ricordava già nel 1944, quando sottolineava l’avvicinamento tra modello parlamentare e modello presidenziale e, a proposito del governo parlamentare inglese, diceva: “La teoria dice che gli elettori eleggono i membri della camera dei Comuni e che questa è la vera sovrana: fa e disfà i ministeri, fa le leggi (…). La realtà di oggi [corsivo nel testo] (…) è tutta diversa. La camera dei comuni non fa né disfà i ministeri, non vota mai le leggi le quali abbiano origini nella camera medesima e vota quasi sempre e soltanto i disegni di legge che le sono messi innanzi dal governo”. Aggiungendo poi che “è ingigantita la figura del primo ministro” e che “oggi, le elezioni si fanno nel suo nome ed in quello del capo della o delle opposizioni”!
Sarebbe ora di un atto di onestà intellettuale. E che la smettessimo di coltivare una narrazione del tutto anacronistica sull’assetto delle istituzioni. Alimentare false convinzioni è il miglior modo per logorare la credibilità delle istituzioni e delegittimarle nel profondo.
Dovremmo prendere atto che l’unico modo di evitare l’irreparabile non è chiudere gli occhi davanti alla realtà, ma regolarla e disciplinarla con pesi e contrappesi. Sarebbe sempre meglio che continuare a subire i continui sbreghi cui lo stato delle cose, non la velleità di qualche aspirante tiranno, ci costringe.
E’ un interesse soprattutto per l’opposizione, la quale si è costretta a difendere una presunta ortodossia costituzionale, quando è minoranza, per poi doverla infrangere quando va al governo. Una posizione che suona ipocrita, lamentista, inconcludente e inaffidabile.  Mentre ben altre sarebbero le risorse da offrire per rilanciare soluzioni ambiziose e riforme di sistema, incalzando la maggioranza e andando a vedere quanto autentiche siano le volontà di innovazione.
Quanto detto basta ad assicurarci che la riforma si farà? Purtroppo no, visti i precedenti e vista l’utilizzazione meramente tattica che, del tema, sinora si è fatta.
Ma se, spes contra spem, si volesse fare sul serio, forse si dovrebbe ripartire dall’inizio. Dai punti che gli stessi costituenti considerarono dei compromessi insoddisfacenti? A cominciare dalla forma di governo o dal tema della giustizia. Si rileggano quelle pagine e si recuperino quelle proposte, modernissime, che furono abbandonate “perché la condizione attuale” (del 1946) non lo consentiva. Il Presidenzialismo, il premierato forte, il ruolo dei PM, le leggi elettorali o il bicameralismo.
Tanti spunti e non poche sorprese. L’attuale dibattito si sdrammatizzerebbe non poco e ci libereremmo di tanti tabù che lo avvelenano. Soprattutto troveremo molte proposte oggi irrise dall’ortodossia costituzionale dei benpensanti di turno.
Scopriremmo che certe posizioni di tanti Costituenti (da Calamandrei a Einaudi, da Tosato a Leone, da Mortati a Ruini) vennero sconfitte da una ragion di Stato che oggi non ha più ragion d’essere. Un ritorno alla Costituente sarebbe l’esatto contrario del “ritorno allo Statuto”.
Ripartiamo da lì. Così onoreremmo “da adulti” la Costituzione e il lavoro dei Costituenti. E daremmo un tono strategico ad un dibattito asfissiato dai tatticismi ipocriti che hanno solo l’effetto di delegittimare ciò che c’è, senza sostituirlo con nulla di nuovo. Preparando, ahimè, veramente la strada a qualche pulsione autoritaria.


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