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L’urbanismo che diventa arte

Dovendo parlare di arte e urbanismo, mi viene naturale fare riferimento ad Hedward Hopper, le cui opere, fortemente volute in Italia dalla Fondazione Roma, sono attualmente visibili nella Capitale, presso il Museo di Via del Corso, nella più grande rassegna mai allestita nel nostro Paese.
Edward Hopper è senza dubbio uno degli artisti americani più significativi del XX secolo, che ha dato voce ad un’America meno sfolgorante di quella che l’iconografia tradizionale ci ha trasmesso in quell’epoca, e cioè un’America dai contorni meno monumentali, meno attrattivi: un’America del quotidiano, fatta di posti apparentemente anonimi, ma in cui pulsa la vita di tutti i giorni di quella “middle-class” che costituisce, lo si voglia o meno riconoscere, la vera forza di quella grande Nazione. E’ l’America che, completata la sua unità politica, oltre che geografica, diviene gradualmente l’America che è diventata il simbolo della potenza tra le due guerre e che oggi manifesta le sue prime grandi debolezze; quella Nazione che nell’immediato dopoguerra ha dato a noi, amanti della sua letteratura – dei Dos Passos, degli Hemingway, degli Steinbeck – l’immagine del grande Paese che è e rimane presidio di libertà, nonché contenitore in grado di amalgamare le diversità etniche e sociali in quello che si definisce appunto “il modello americano”. Tale “modello” è oggi purtroppo travisato e deformato dalla spinta di pulsioni economiche che vanno al di là delle aspettative di crescita equilibrata, e sono preminentemente animate da un desiderio smodato di arricchimento che le fragilizza.
Nel contesto di questa America che possiamo definire in crescita tumultuosa, Hopper visualizza gli aspetti più borghesi, più intimi, dando loro tuttavia una patina originale, nella quale – con grande crudezza, frutto di una sua visione personale – ci mostra, nel contesto urbano e agricolo, i sentimenti di una stagione dell’anima che sono la conseguenza della solitudine e dell’alienazione dell’uomo.
Il pittore mostra una sensibilità che, nel fotografare la realtà quotidiana, immette in essa sentimenti mai prima visualizzati con la stessa capacità, e sono appunto i sentimenti dell’angoscia, della solitudine, dello smarrimento. Le tappe in cui si snoda il percorso culturale di questo grande artista, tuttavia, mi consentono di evidenziare una mia personale valutazione – che non ho mai ritrovato negli scritti di tutti coloro che nel tempo magistralmente si sono dedicati allo studio delle opere di Hopper – frutto della prima impressione che ebbi negli anni ’70, quando per la prima volta ne vidi alcune opere negli Stati Uniti: l’immanenza dell’architettura nella sua produzione. Nel periodo parigino, infatti, Hopper non sembra attratto dalla creatività frenetica che in quella stagione vi si manifesta (Picasso e il Cubismo, per fare un esempio), quanto bensì dalla riproduzione dapprima cupa poi subito più solare della realtà architettonica della città. Con “Ponte a Parigi”, “Ponte sulla Senna”, “Chiusa della Monnaie”, e ancora “Notre-Dame de Paris”, “Le Quai des Grand Augustins”, “Il Louvre con il temporale”, “Le Pavillon de Flore”, e infine “Le Pont Royal”, egli dà alla luce opere in cui si manifesta un grande pittore di architetture urbane. Hopper a Parigi dipinge invero la città con un’ottica ed una prospettiva particolari (ad esempio, il Louvre viene raffigurato dal basso, dal basamento del Lungosenna): le strutture della metropoli, i ponti, le chiuse dei canali sono le stesse architetture che ritroviamo nello skyline di “Case ed appartamenti, East River”, e trasferiscono il grande amore di questo artista per le strutture, come appare in maniera evidente nei suoi studi e nelle sue ricerche.
Questa sua capacità di visualizzare nella pittura le architetture appare ancora più manifesta al suo ritorno in America dopo il soggiorno parigino, allorché le sue opere – sia del periodo del suo soggiorno a Gloucester, in cui ignora le belle case del Settecento e predilige le architetture vittoriane di metà Ottocento, sia ancor più durante il soggiorno nel Massachusetts, dove a Truro e a Cape Cod dipinge “I granai dei Cobb e case in lontananza”, “La fattoria dei Cobb” dove soggiorna, “Casa Capron”, “Casa sul fiume Pamet” e “Tramonto a Cape Cod”, in cui le forme essenziali degli edifici appaiono con uno sfondo di dune e verzure tra di esse – ce la trasmettono in tutta la sua capacità espressiva. Sono quadri in cui la figura è assente, ed in cui invece è preminente la pietra. Quando la figura appare – e questo accade nelle pitture di New York – ed ha la connotazione che ha reso celeberrima la produzione di questo grande artista, essa viene sempre ritratta di fronte ad una luce che viene veicolata da finestre, tanto da far dire di lui – come Hillman ha voluto fare, accomunandolo a Rembrandt e Vermeer – che fosse “un genio delle finestre, guardate da dentro e da fuori”.
Anche in tali opere, tuttavia, notiamo il permanere di questa attenta visione del mondo esterno rappresentato da strutture e costruzioni. Il celeberrimo quadro dal titolo “Sole del mattino”, in cui una donna guarda il cielo al di fuori della finestra, in effetti visualizza una costruzione industriale; lo stesso può dirsi dell’altro famosissimo dipinto “Secondo piano al sole”. In altri termini, l’uomo di Hopper è solo e smarrito in un contesto urbano che cresce nelle sue volumetrie, diventando parte preponderante, immanente nella vita dell’individuo, e accrescendone così il senso di solitudine e di alienazione.
 
 
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