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Pechino alza la posta

Ben pochi hanno nutrito speranze in un reale successo della conferenza di Copenaghen sui mutamenti climatici. Ma anche quei pochi hanno dovuto abbandonare le loro aspettative ancora prima dell´inizio del summit indetto dalle Nazioni Unite. Si è infatti capito che l´appuntamento nella capitale danese sarebbe sostanzialmente fallito quando, alcune settimane prima del suo inizio, Barack Obama e il presidente cinese, Hu Jintao, si sono incontrati a Pechino e hanno deciso che qualsiasi accordo sul clima avrebbe comunque escluso misure vincolanti. Copenaghen si è così risolta in poco meno di un fiasco, ma ha fornito l´ulteriore conferma – qualora ce ne fosse stato  ancora bisogno – del rilievo che la Cina ha acquistato all´interno della comunità internazionale.  Un´importanza sempre crescente testimoniata anche dal fatto che la visita di Obama sia stata preceduta da quelle di alcuni suoi strettissimi collaboratori come Hillary Clinton e il segretario al Tesoro, Tim Geithner. Tanta premura da parte dell´amministrazione statunitense – che fino a qualche anno fa avrebbe al massimo rivolto alle autorità di Pechino un severo richiamo al rispetto dei diritti umani – è sostanzialmente dovuta al nuovo status di potenza economica e finanziaria acquisito dalla Cina. Dopo la crisi che ha travolto Wall Street, e che ancora fa sentire i suoi effetti, gli Stati Uniti – imprigionati dalla bolla dei mutui subprime e da uno sviluppo fittizio basato sui debiti contratti dalle famiglie – hanno dovuto fare i conti con una realtà non ignota, ma che per un certo periodo è stata trascurata: la Cina è divenuta la loro maggiore creditrice. In questi anni i cinesi hanno infatti accumulato gigantesche riserve in dollari e in titoli di Stato americani. Washington si è trovata così a dipendere drammaticamente da Pechino per finanziare il suo enorme debito pubblico. Una ricchezza, quella cinese, cresciuta in maniera esponenziale e che negli ultimi tempi non ha segnato arretramenti. Perché il gigante asiatico non ha mai conosciuto la recessione, nemmeno durante il periodo più nero della crisi. Il suo prodotto interno lordo avrà anche registrato qualche flessione, ma non è mai cresciuto al di sotto di percentuali annue del 7-8 per cento, valori che per gli europei – e per noi italiani in particolare – rivelano la stessa affascinante e inafferrabile lontananza di un miraggio. E ora il Dragone, sopravanzando la Germania, può fregiarsi anche del titolo di primo esportatore del mondo.
I  dati diffusi recentemente da Berlino sull´export dei primi 11 mesi del 2009 hanno infatti ufficializzato il sorpasso, peraltro ampiamente atteso, tanto da essere trionfalisticamente pronosticato dal ministro aggiunto del Commercio, Zhong Shan. Nel periodo in esame il gigante asiatico ha esportato beni per 1.070 miliardi di dollari, mentre, secondo l´agenzia federale di statistica tedesca Destatis, nello stesso periodo la Germania ha esportato beni per 734,6 miliardi di euro, pari a 1.050 miliardi di dollari. Il tutto a dispetto di un anno di crisi mondiale in cui si stima che complessivamente l´export cinese sia calato del 16 per cento. A onore della prima economia dell´area euro va comunque ricordato l´abisso demografico che la divide dalla Cina: la Germania è riuscita a mantenere il primato per anni, anche se conta “solo” 82 milioni di abitanti, mentre i cinesi sono 1 miliardo e 340 milioni. E proprio l´infinita riserva di forza lavoro costituisce la prima ricchezza della Cina, la cui smisurata popolazione può in prospettiva diventare uno sconfinato mercato da conquistare. Un mercato in realtà già capace di assorbire ricchezza dall´interno, se e vero che la Cina è divenuto il Paese in cui si vendono più automobili al mondo (oltre tredici milioni e mezzo di vetture nel 2009), soppiantando gli Stati Uniti che per oltre cento anni hanno mantenuto il dominio. Le stime della Banca mondiale già suggeriscono che presto il Dragone sorpasserà il Giappone, per diventare così la seconda economia del mondo e alcuni ritengono che ciò sia già avvenuto. Certo, a favore di questo impeto di sviluppo ha giocato la conservazione della moneta locale, il renminbi, a un cambio ridotto rispetto al dollaro, fattore che ha  amplificato le esportazioni e l´intera economia cinese. A nulla sono per il momento serviti gli appelli internazionali per un riallineamento della valuta. La situazione attuale deve apparire enormemente vantaggiosa alle autorità cinesi, che – probabilmente a ragione – si sentono in posizione di forza rispetto ai loro principali debitori, gli Stati Uniti, e al resto dei Paesi sviluppati. Qualcuno, in occidente, comincia a sussurrare che i dati riguardanti la crescita cinese siano stati gonfiati. Anche secondo il Fondo monetario internazionale i numeri forniti da Pechino non sarebbero del tutto affidabili a causa dell´inaccessibilità al pubblico di molte statistiche e dell´assenza di chiarimenti e spiegazioni su incongruenze relative a dati isolati. Nessuno pensa davvero alla crescita cinese come a un fenomeno fittizio o destinato a non durare nel tempo, ma la sfiducia circa gli indicatori di crescita lascia trapelare un clima di crescente tensione – magari malcelato – verso Pechino. E questo si riflette necessariamente sul versate politico-militare.
Proprio in questi giorni è stata diffusa la notizia che la Cina ha testato con successo una nuova tecnologia militare volta a distruggere i missili a medio raggio. A renderlo noto è stato il governo, le cui fonti si sono affrettate a sottolineare la natura esclusivamente difensiva del test, che comunque si inserisce in clima di crescente attrito tra Washington e Pechino. I cinesi hanno mal digerito la vendita da parte degli americani di testate missilistiche a Taiwan che, come noto, considerano una loro provincia. Di conseguenza, qualunque iniziativa straniera a sostegno del governo di Taipei viene considerata alla stregua di un´ingerenza in affari prettamente interni. Qualche giorno prima dell´esperimento missilistico, la stessa agenzia di stampa ufficiale che ne ha dato notizia aveva affermato che la vendita di missili a Taiwan – avvenuta poco dopo la visita di Barack Obama – getta un´ombra minacciosa sulle relazioni bilaterali. Agli analisti appare ormai chiaro che il rapporto tra Stai Uniti e Cina sarà sempre più segnato dalla ricerca di un delicato equilibrio, in un inesauribile processo fatto di strappi e attente ricuciture diplomatiche. In definitiva nessuno dei due può, per il momento. fare a meno dell´altro. Ma innegabilmente il baricentro di questo nuovo bipolarismo va sempre più spostandosi verso l´Asia. Di questa tendenza può essere rivelatore il fatto che, anche in materia di spese militari, la Cina, nel 2008, è divenuta il secondo Paese al mondo, alle spalle proprio degli Stati Uniti. Secondo le previsioni di bilancio annunciate nel marzo dello scorso anno, le spese militari cinesi dovrebbero aumentare di oltre il 15 per cento. Nessun’altra Nazione è attualmente in grado di sostenere un simile sforzo, che in occidente apparirebbe per molti versi inaccettabile. Pechino ha affermato che la parte essenziale del suo stanziamento per la difesa è destinato a migliorare le condizioni di vita degli oltre 2,3 milioni di uomini e donne che costituiscono il suo esercito: la più grande macchina  da guerra del pianeta, impressionante anche solo per l´impatto numerico. A poco servono le ormai consuete rassicurazioni circa la natura puramente difensiva di questo enorme apparato bellico. La Cina nuova potenza egemone, economica e militare, è tutt´altro che un´ipotesi lontana o una creazione di fantapoltica. Il Dragone si è lanciato alla conquista. E con lui – piaccia o non piaccia – bisognerà fare i conti.


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