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La volontà dell’inedito

Più che un’iniziativa positiva, l’installazione di opere d’arte all’interno degli spazi pubblici è un’azione poetica. Per almeno tre effetti: rompe l’ovvietà dello spazio urbano e offre di esso un luogo inedito capace di suggestionare; rafforza il gioco tra identità e alterità urbana mettendo in discussione il nostro modo di essere comunità e, per ultimo, perché si tratta di fonte di ispirazione e di informazione relativamente al rapporto tra il territorio e la sua trasformazione. 
 
L’arte pubblica rappresenta per i cittadini un intervento nelle pieghe della quotidianità urbana per sospenderla e sperare che in essa vi sia qualcosa di più del presente. Occorre, in altri termini, intercettare e interrompere i flussi urbani attraverso una domanda di senso, mediante un’interrogazione radicale per strappare il loro sguardo da quell’abitudine perversa che consiste nell’indifferenza che è una delle facce del conformismo.
 
Per regolare e favorire l´arte pubblica esiste uno strumento legislativo, la Legge del due per cento, di cui penserei di certo bene se fosse applicata. O meglio applicabile. La ratio della legge è interessante e tuttavia non coglie fino in fondo la questione. Il problema  non è solo come finanziare la cultura, ma perché finanziarla. Quest’ultima non è già un fattore di sviluppo? Dovremmo perciò rovesciare il problema. E chiederci quale sia l’indotto che la cultura genera per scoprire, per esempio, che molte attività commerciali gravitano intorno al settore dello spettacolo senza che quest’ultimo, purtroppo, venga mai percepito dal Paese come un’impresa.
 
Credo che la Legge del due per cento sia ancora molto lontana dal coinvolgimento degli Enti territoriali ed è proprio in questa direzione che intendo muovermi come assessore alla Cultura del Comune di Milano con un nuovo progetto. In particolare in un Paese come il nostro dove le città riuniscono storie e simboli, sviluppo e socialità, tradizione e innovazione secondo una modalità estetica ed etica che non ha pari in termini di paesaggio pubblico. Ebbene, la legge dovrebbe raccogliere le istanze locali con una maggiore premialità nei confronti dei progetti in grado di assicurare rendimenti virtuosi.   
 
L’Italia, rispetto alle grandi città contemporanee, è indietro. Da sempre sono fautore delle metropoli, ma di quelle vere. E il nostro Paese non ne ha. Perché non si tratta soltanto di pensare alla città secondo le sue dimensioni quantitative, presupposto senza il quale non si generano politiche ed economie strategiche e di scala. La questione è un’altra, è l’idea di città, orizzontale e soprattutto verticale, capace di superare i confini amministrativi e subordinarli a quelli socio-culturali. Qui, purtroppo, sono costretto a rimandare al mio libro “Cittàteatro. La città a venire” (Ed. Moretti&Vitali, 2008) che di questi temi propone un approfondimento a favore del rilancio della cultura come protagonista della scena urbana.
 
Esempi da seguire? Ne indico due, sarò banale, ma reale: Parigi e New York. La prima continua a riconoscere e rappresentare un luogo in cui chi pensa, parla, scrive o legge un libro è candidato ad essere il suo cittadino ideale. Il tutto, si badi, accolto ed avvolto da una bandiera che fa “brand”. New York invece è tuttora paradigmatica per l’incontro e l’ibridazione di lingue e interessi che si muovono senza paura di essere inquieti e a volte irriverenti. Là dove la frenesia non è patologia, là dove l’abitudine all’energia non è sopita.
 
Come assessore alla Cultura la mia mossa è elementare:allargare  il concetto di cultura a creatività riunendo settori spesso tra loro paradossalmente contrapposti come le mostre e lo spettacolo dal vivo, i musei e le biblioteche. Non solo. Milano deve assumere su di sé la responsabilità culturale in ambiti quali la moda, il design, il cinema, in specie in post-produzione, la multimedialità e naturalmente l’editoria. Se noi misuriamo il valore aggiunto di questi mondi possiamo allestire una città altra, più alta, capace di credere fino in fondo alla necessità di essere con-temporanea. Per dirla con i futuristi, di cui mi sento ovviamente “illegittimo” erede, noi vogliamo la volontà dell’ultimo, dell’inedito, del domani. Ma non per Milano, per l’Italia.
 
Oggi la città di Milano ha una grande opportunità di sviluppo da questo punto di vista: l’Expo 2015. È proprio nell’idea di Marinetti pensare a Milano come “caffeina d’Europa”. L’Expo significa prima di tutto coraggio di esporre e di esporsi di fronte al diverso, all’inaspettato, all’incalcolabile. A mio avviso il profondo statuto culturale dell’Expo è di forte fascino. Riguarda il gusto, il “taste”, il recuperare il rapporto fra arte e vita, la loro maggiore coincidenza possibile. Di questo grande evento che ricordo trasversale per interessi e valori, la cui portata implica un beneficio per tutta l’Italia, vorrei credere che debba essere vero nei principi, interessante nei mezzi, utile nei fini. Ma questa non è forse la definizione di un’opera lirica come vorrebbe Verdi? Gli artisti possono fare parte delle iniziative dell’Expo 2015 prendendo i loro spazi. Si deve credere in loro, rendendoli partecipi fin dall’inizio della regia dell’evento. Se dovessero esserne soltanto comparse, lo spettacolo ricorderebbe la peggiore televisione.
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