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Sciogliamo il nodo istituzionale

«Il ragionamento sulle grandi opere e sulle regole necessarie a realizzarle dovrebbe partire dalla constatazione di un nostro, grave, difetto: scriviamo ed approviamo riforme – costituzionali e non – che poi abbandoniamo, non preoccupandoci della loro attuazione. Prendiamo ad esempio la riforma del Titolo V della Costituzione. Ci sono state molte polemiche, ma il testo votato a maggioranza nel 2001 non è stato abrogato dal referendum ed è ancora pienamente vigente. Il problema è che da allora nessuno se ne è più occupato. E’ stato introdotto un sistema di governance multilevel, essendo le competenze distribuite fra più livelli e spesso in concorrenza fra loro. Ne deriva una confusione incredibile. Bisognerebbe chiarire i principi che regolano l’attribuzione delle competenze concorrenti ma a chi affidiamo questo compito: al legislatore o alla Corte Costituzionale? Per ora, Parlamento e governo non se sono occupati. E il tema è davvero centrale. Basti pensare che in base a questa riforma l’attività amministrativa spetta ai Comuni. Questo comporterebbe un esame di fondo della struttura dei nostri ottomila Comuni, delle loro dimensioni e attribuzioni. Nessuno se ne occupa e questo è alla base delle difficoltà che riscontriamo nel regolare gli investimenti in infrastrutture e grandi opere».
Un buon esempio della debolezza della classe dirigente di questa Seconda Repubblica.
 
«Guardi, questa è un’antica abitudine nazionale. Mi ricordo quando ero al Quirinale e, nel 1980, ci fu il terremoto del 80 nell’Irpinia. Pertini mi chiese “Ma non abbiamo una legge su questi disastri, di protezione civile?” E io: “Si presidente, ce l’abbiamo la legge, però mancano i regolamenti di attuazione, quindi è come se non ci fosse”. Il Parlamento aveva approvato le norme dieci anni prima ma nessuno aveva scritto i regolamenti di attuazione. QQQ  uesto è solo un esempio. Ma non dobbiamo sottovalutare un secondo aspetto: nella nostra cultura manca il valore, costituzionale, della distinzione netta tra le responsabilità politiche e quelle amministrative. La corruzione nasce dalla mancanza di un confine chiaro. Il punto è tutto culturale. Se prevale il clientelismo è evidente che sia ben più difficile trovare tecnicamente le soluzioni ottimali e che offrano condizioni di garanzia anche sui tempi di realizzazione degli investimenti».
 
Negli ultimi anni si è trovata una soluzione con la Legge obiettivo e la logica dei commissari straordinari.
 
«Io non escludo che questa formula possa funzionare. Il problema però resta lo stesso. Con quali criteri si scelgono i commissari? Se non c’è chiarezza e trasparenza sui criteri, si finisce per scegliere fra i propri amici o fra singoli circoli. Naturalmente, si tratta di una modalità fallace e questo è un serio limite alla capacità competitiva del sistema Italia».
 
Questa però dipende anche dalla struttura istituzionale di un Paese. Il fatto che da noi manchi armonia, cultura istituzionale, forse non irrilevante.
 
«Certamente. Avremmo bisogno di forze politiche adeguate, che non abbiamo. E secondo me non le abbiamo per una ragione molto semplice: perché abbiamo un sistema che porta alla frammentazione».
 
Difficile non pensare a cosa sarebbe oggi se il tentativo del governo Maccanico fosse riuscito.
 
«Quella è stata sicuramente un’occasione perduta, ormai lo riconoscono tutti. Purtroppo non è stata l’unica. Di occasioni perdute ne abbiamo avute tante veramente, non una. Forse il guaio comincia nelle elezioni dell’87».
 
In che senso?
«Quelle elezioni vennero dopo un lungo periodo di salda guida al governo da parte di Craxi. E il leader socialista aveva impersonato una strategia, direi molto audace, per sottrarre il Paese alla tenaglia democristiana-comunista attraverso un’idea ben precisa di riforma istituzionale. In quella tornata elettorale però il Psi prese solo il 14,4%: la politica di sfondamento che lui aveva fatto fallisce. E difatti lì abbandona l’idea della Grande Riforma. E lì cominciano i guai perché lì si mette in moto quel meccanismo che poi ha portato al fallimento della Prima repubblica. Che è crollata proprio per l’incapacità di quell’assetto costituzionale – ed elettorale di tipo proporzionale – a creare l’alternativa. Le due strategie, quella di Moro e Berlinguer della solidarietà nazionale, che non era il compromesso storico, e quella di Craxi sono entrambe fallite. Tangentopoli fu più una conseguenza della crisi che non una causa».
 
Anni dopo ci fu per l’appunto l’ipotesi del governo Meccanico per le riforme
«Allora, il mio tentativo fu quello di  mettere insieme le forze riformiste dell’uno e dell’altro schieramento. La novità che cambiò tutto fu il referendum sulla legge elettorale. Il maggioritario non era soltanto un nuovo sistema elettorale, era una civiltà diversa. L’unico che lo capì fu Berlusconi».
 
Il suo esecutivo non vide mai la luce. Perchè?
 
«Secondo me per una ragione molto semplice: io avevo un’idea precisa di una legge elettorale maggioritaria a doppio turno, il cosiddetto modello francese. Chi fu contrario fin dall’inizio, furono i leghisti, e Bertinotti. Fini invece aveva un’altra illusione: voleva andare alle elezioni perché pensava di essere più forte di Berlusconi elettoralmente. Poi si aggiunsero anche Casini e Mastella, i quali temevano il rischio di essere esclusi dai futuri giochi per il governo. Ricordo che Berlusconi, che era favorevole al mio progetto, mi disse “Se fosse stato solo Fini, l’avrei convinto. Ma con Mastella e Casini contro non ce la faccio”».
 
Fu persa un’altra occasione per modernizzare il sistema istituzionale e quello dei partiti. Così, ci ritroviamo in un sistema debole in cui la politica fatica, per esempio, a regolare – non governare – l’economia.
 
«Da questo punto di vista, il documento più eloquente della situazione nella quale ci si trova oggi in Italia è quello che ha fatto l’autorità della concorrenza sugli intrecci azionari. E’ la fotografia di un modello corporativo che poco o nulla ha a che fare con i principi della concorrenza e del libero mercato. Dobbiamo sperare nel ruolo positivo dell’Europa. E chissà che l’idea di un Fondo monetario europeo non possa rappresentare un passo in avanti. La soluzione di molti problemi dell’economia italiana non può che passare dal mercato unico».
 
Anche per quello, però, servirebbe la politica.
 
«Io resto convinto che serva mettere insieme le persone ragionevoli dell’una e dell’altra sponda su un progetto per il Paese».
 
Era l’idea di fondo del governo Maccanico. Fallì per gli egoismi dei protagonisti di allora, che sono gli stessi di oggi.
 
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