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Fiori di carta/ I cani vanno avanti di Valentina Brunettin

Immaginatevi una scrittrice ancor giovane irretita da un marito pigmalione che la costringe a collaborare a dei polpettoni di successo nei quali delle sue aspirazioni originarie poco o niente resiste; e immaginatevi che un giorno, affascinata dalla storia di Laika, la cagnetta sovietica che per prima affrontò solitaria il viaggio nello spazio, lasci perdere le prevedibili vicende dei personaggi della saga maritale e provi a seguire le sue ossessioni interiori, le quali poi, quando non si riducono a una proiezione della propria esistenza in quell’altra radicalmente semplificata dei cani che, appunto, la vita «non cercano di spiegarla, ma di viverla», si concentrano sulla violenza a cui sono destinate le donne, senza neppure sentirsene davvero vittime, perché più forte è il senso di colpa che le inchioda alla loro sorte.
Le donne di questo I cani vanno avanti (Alet, pp. 204, euro 10,00) sono senza speranza, prigioniere di un’educazione e di una cultura che le alleva affinché raggiungano il loro patibolo non potendo neppure immaginare di farla franca, e così, umiliate senza scampo, ritrovino il posto che a loro tocca in questo mondo.
La cagnetta randagia viene addestrata al lancio spaziale senza nessuna attenzione per la sua sofferenza e alla fine parte senza che il ritorno sia neppure previsto; Adele e Eleonora diventano vittime dei bruti non appena scoprono il piacere di una propria femminilità e così nuovamente la seppelliscono nella rimozione di un’identità mai pienamente conquistata; Emma, la scrittrice, vive ossessionata dal cibo e dal peso, perennemente in bilico tra la bulimia e l’anoressia, obbediente a un marito che non la ama e infatti fa un figlio con l’amante, che non la stima e la sfrutta come coautrice, al punto di aver paura di ciò che liberamente scrive e di desiderare di distruggerlo, di cancellarlo.
Le storie che si intrecciano in questo terzo romanzo di Valentina Brunettin faticano a scorrere lineari senza precipitare nel buio di un annientamento.
Brunettin ha ora quasi trent’anni, dieci di più di quando esordì vincendo il  Premio Campiello Giovani con L’Antibo,un romanzo storico nel quale il tempo remoto serviva a nascondere l’autore e i suoi sentimenti, e subito dopo pubblicò un ben più ambizioso Fuoco su Babilonia, altrettanto straniante per l’ambientazione nella Germania nazista e per l’intreccio che riguardava il terribile destino degli omossessuali nel Reich; ora per la prima volta si avvicina a temi e personaggi prossimi alle sue esperienze, rispetto ai quali è in qualche modo costretta a prendere posizione, a lasciarsi coinvolgere.
La scrittura, insomma, non è più un paravento, colto, elegante, nobile persino, dietro il quale nascondersi; anzi il tema del libro è proprio lo sforzo di liberarsi delle costrizioni di un esercizio letterario senza cuore né anima.
Al contrario, quando finalmente «per tutta la notte» scrive la storia di Adele e del suo stupro, scopre che la vergogna del personaggio è anche «la sua», benché un dramma simile non le sia mai toccato di viverlo, e scopre ancora di essersi «lasciata guidare da un istinto: come spesso ha pensato, la scrittura non è altro che un rodeo su un cavallo furioso, è stupendo dominarla ma è maggiormente adrenalinico lasciarsi andare ai rimbalzi isterici della sua natura».
La questione in fondo è la stessa che a Emma propone la direttrice del rifugio dei cani randagi che una volta è stata poetessa: o vivere o scrivere, o, meglio ancora, o vivere o interrogarsi sul senso della vita e porsi infinite domande inseguendo irraggiungibili risposte.
Romanzo esemplarmente metaletterario questo ritorno di Valentina Brunettin chiude i conti con una pausa quasi decennale, durante la quale forse aveva provato a vivere e basta; riprendendo la penna in mano prova a fare i conti con se stessa, a capire perché non voleva né poteva rinunciarci.
Fin qui Brunettin è arrivata con sicurezza, talvolta persino con ansia frettolosa che lascia tracce di approssimazione in una lingua che ogni tanto pare inventata tanto è improbabile nel lessico o nelle metafore, ma sono sbavature di poco conto; piuttosto resto interdetto di fronte all’insegna che in copertina sovrasta l’autore e il titolo: iconoclasti. A me pare fuorviante, perché non si è di fronte a «una critica demolitrice e sovversiva», come spiega eccitata la direttrice della collana Giulia Belloni, e neppure a una «polemica indiscriminata e distruttiva» contro «le convenzioni sociali» combattuta «con aggressiva irriverenza», come meglio suggerisce il De Mauro, ma più semplicemente a una prova convincente di maturità raggiunta.
 
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