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Sostenibilità: la realtà dietro il mito

Sostenibilità, sviluppo sostenibile, responsabilità sociale d’impresa sono termini ricorrenti a cui amministratori, imprenditori, opinione pubblica sono ormai abituati. Si tratta di semplici concetti acquisiti solo da qualche decennio dalla cultura occidentale, ma in varia forma presenti da tempo anche in altre. Sono argomenti di cui nessuno mette in dubbio l’importanza, tutti concordano nella necessità di attuarli nella vita corrente, tanti si sono cimentati nell’impresa di fissarne presupposti.
Il concetto di sostenibilità è poco più di una opinione, una valutazione soggettiva, condizionata dalla scala di variabili e di priorità utilizzate per la valutazione: è sufficiente spostare alcuni termini per cambiare il risultato complessivo delle valutazioni.
È significativo il fatto che fin da subito (rapporto Brundtland – Nazioni Unite 1987) il termine “sostenibilità” sia stato modificato in “sviluppo sostenibile”. Il sostantivo-concetto principale è così diventato aggettivo di un diverso concetto base, lo “sviluppo”. Il sistema occidentale, che fa coincidere il benessere con lo sviluppo economico, non poteva evidentemente accettare le conclusioni del famoso rapporto del 1972 di Donella Meadows per il Club di Roma, che poneva la condizione del “mantenimento” come unica alternativa al disastro della umanità. Puntualmente le imprese hanno elaborato sistemi di Csr (Corporate social responsibility) che si avvalgono di modelli di valutazione precostituiti (fra tutti Standard SA8000, Standard AA1000, Iso 26000). I principi dello sviluppo sostenibile e della responsabilità sociale sono ben presenti anche nella politica europea e nella legislazione nazionale (decreto legislativo 4/2008 in materia ambientale, dlgs 81/2008 sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro). L’Onu definisce lo sviluppo sostenibile “uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni“.
L’approccio economico al complesso problema è del tutto evidente e spesso condizionante. I protagonisti sono da una parte le imprese, che nella responsabilità sociale hanno individuato una occasione di profitto, e dall’altra i beneficiari della sostenibilità, la società-collettività composta non da “uomini-individui”, ma da parametri selezionati per una contabilità economica: una specie di alieni chiamati non con il proprio nome, ma “stakeholder” – portatori di interessi – come se le generazioni future già da ora fossero suddivise in categorie: quelle “fortunate” che contano – portatrici di interessi – i cui bisogni contribuiscono al valore economico e le altre “non fortunate”, i cui bisogni non contano affatto perché non contribuiscono al valore economico. Stiamo proprio lavorando per “formare” in questo modo il futuro della società?
Inevitabilmente la standardizzazione dei sistemi di valutazione appiattisce la complessità del problema della valutazione per il futuro e così facendo contribuisce ad assegnare valore alla sostenibilità ed alla responsabilità sociale prevalentemente in funzione della massimizzazione del vantaggio economico, che si crea e si può contabilizzare oggi piuttosto che in funzione della assicurazione dei benefici futuri di incerta contabilizzazione. Questo risultato è dovuto a scelte “conformiste” dei parametri ed alla importanza loro assegnata nei modelli utilizzati per classificare e valutare, che comunque non riescono a contenere la realtà in esame, né riescono ad analizzarla in modo convincente. La realtà e le sue evoluzioni sono molto più complesse e la pretesa di ridurle ad un modello costruito concettualmente può portare a seri errori di valutazione.
Ne è un esempio – da qualunque parte lo si voglia esaminare – il ruolo del rating nella crisi economica che stiamo attraversando. Anche in questo caso, gli effetti più pesanti ricadono sulla categoria dei “non fortunati”, quelli che più che intenzionalmente non sono stati considerati nelle formule di valutazione adottate dalla finanza. Nella cultura della attenzione alla forma, ai modelli, è inevitabile che i veri protagonisti destinatari naturali dei benefici delle cose riuscite bene e dei danni delle cose riuscite male – l’uomo – passi in secondo piano, venga ridotto ad astrazione che entra sì nel processo di conformazione, ma rimanendo solo formalmente il protagonista del sistema.
Si corre il rischio che altrettanto avvenga per la sostenibilità, finché almeno non la si riconduca alla sua vera e più completa dimensione sociale, della comunità degli uomini comuni di domani, che non devono essere penalizzati nelle proprie libere scelte dai comportamenti degli uomini di oggi.
Parliamo di uomini, senza perdere di vista il contesto terra e il ruolo determinante di tutto il patrimonio naturale.
E il passaggio dal conformismo alla “ipocrisia” è breve, quasi inesistente, proprio dove si dice – e neanche tanto sottovoce – di perseguire interessi collettivi, ma con l’obiettivo primario della massimizzazione del business.
La constatazione di questi fatti non deve però indurre alla colpevolizzazione dell´impresa, che coerentemente con la propria “mission” cerca a trecentosessanta gradi e sfrutta le occasioni di profitto per i propri stakeholder (quelli più prossimi, gli investitori, e quelli meno vicini, gli utilizzatori dei beni e servizi prodotti) ignorando tutti gli altri non a bilancio. L´espressione “etica di impresa” sintetizza questo.
Il XIX è stato il secolo della conquista del valore dell’individuo, sintetizzata dal trinomio “libertà, uguaglianza e fratellanza”. Il XX è stato il secolo della collettività, dei raggruppamenti, espressi dalle dittature, dal consolidamento degli Stati, dalle concentrazioni industriali e finanziarie, dagli organismi mondiali, dalla istituzione della Comunità europea che fallite o variamente in crisi contribuiscono a riportare in primo piano nel secolo appena incominciato l´individualità, anche essa in crisi, ma con prospettive diverse.
Queste prospettive si giocano tutte sulla sostenibilità e sulla responsabilità sociale degli individui che devono poter diventare singolarmente attori-protagonisti, se non altro per se stessi e ognuno per la propria parte assolutamente non delegabile.
La necessità del ritorno dell’uomo al centro dell’interesse per la sostenibilità non è affatto un concetto nuovo: è già stata messa in evidenza nella Dichiarazione di Rio de Janeiro del 1992 ratificata da 159 Stati, quale risultato delle consultazioni iniziate a Stoccolma nel 1972 e ulteriormente concretizzate nel più recente protocollo di Kyoto.
Se l’impresa, pur a fatica, sta cercando di adeguarsi ai criteri di sostenibilità e di responsabilità sociale, stenta invece a decollare in modo adeguato la corrispondente azione da parte degli individui a causa di realtà sociali e culturali ancorate più al passato che proiettate coraggiosamente al futuro, a causa di demotivazione sul piano etico e di insufficiente educazione all’esercizio della responsabilità individuale nel contesto del collettivo.
Occorrerebbe un secondo Rinascimento che affermi un nuovo umanesimo ed un secondo Risorgimento che metta in moto una determinazione a cambiare. Se per gli interessi dell’impresa il conformismo e la ipocrisia possono essere di una qualche utilità, altrettanto non si può dire per la collettività, che è così costretta a “comportamenti realmente etici” senza scorciatoie.
Le istituzioni, l´istruzione, le varie organizzazioni devono svolgere un ruolo determinante per educare e motivare gli individui al cambiamento dei sistemi di vita in altri, ma ugualmente evoluti e gratificanti rispetto agli attuali, fondamentalmente più equi, solidali e responsabili. Si tratta di processi lenti in un contesto paradossalmente caratterizzato da cambiamenti veloci, facendo i conti con sistemi naturali regolati da equilibri che devono essere salvaguardati realmente e non ricorrendo a conformismi o ipocrisie.
Sostenibilità, sviluppo sostenibile, responsabilità sociale sono concetti, il cui significato non è dato dalle interpretazioni, ma soltanto dalla concreta e responsabile attuazione che ogni individuo riesce a realizzare, nessuno escluso, da solo e/o insieme ad altri.


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