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La rinascita della cultura

L’offerta culturale in Italia, pur non essendo sempre ed esclusivamente di pertinenza pubblica, è comunque molto condizionata ed influenzata dalle decisioni governative. La maggior parte delle organizzazioni culturali infatti vive o sopravvive grazie alla finanza pubblica. I due recenti decreti legge, il n. 64 e il n. 78, vi passano una scure e forse rendono ineludibile una profonda riflessione. In particolare il dl 64/2010 che insiste sullo spettacolo in particolare dal vivo, potremmo definirlo una rivoluzione sul piano dei diritti-doveri dei lavoratori. Il dl 78/2010 è invece molto più ampio perché riguardante la stabilizzazione finanziaria dei conti pubblici del Paese.
Il decreto taglia profondamente i finanziamenti alla cultura, sia quelli destinati al ministero di competenza che quelli erogati sotto forma di contributi o sovvenzioni ad oltre 230 organizzazioni. Sebbene non sia ancora stato stabilito di quanto si stringerà la lista dei beneficiari, di sicuro però c’è la riduzione del 50% rispetto al passato delle risorse destinatevi, oltre alla trasformazione dell’Ente teatrale italiano in ufficio ministeriale.
Nella diversità dei due provvedimenti appare una linea comune, quella sulla quale a mio giudizio bisogna veramente riflettere: il bisogno di richiamare ai principi di efficienza e di efficacia. Il momento che stiamo vivendo a livello globale non permette più alla società di rimandare l’appuntamento periodico del riallineamento di se stessa con l’evoluzione generale. L’efficienza significa uscire definitivamente dalla logica della disattenzione ai costi e quindi arginare gli sprechi, la cattiva gestione, in qualche misura anche rifiutare la mancanza di rispetto verso le risorse della collettività. L’efficacia significa invece dare ciò di cui la società e la comunità nello specifico hanno bisogno e si aspettano dall’offerta culturale.
 
Nei convegni, nei dibattiti e in molti editoriali si incontra sempre più spesso l’invocazione che si approfitti di questa profonda crisi per rinnovarsi, per uscire migliori di prima. Per arrivarci bisogna ripensare i valori, gli obiettivi, la missione delle istituzioni culturali.
Molti sono d’accordo che la crisi internazionale – non più solo economica – non ha generato questi problemi, di fatto ascrivibili all’identità del settore culturale, ma li ha solo acuiti e resi non più eludibili. Cosicché la risposta degli operatori culturali (artisti, promotori, organizzatori, intellettuali) più che la protesta in piazza, dovrebbe essere più profonda ed estemporanea. È necessario generare nuove idee per il rilancio del settore, senza essere influenzati dai pregiudizi. Come afferma Elio Borgonovi, prendere in considerazione «un ente pubblico o qualsiasi altro fenomeno della società come azienda non significa affatto far prevalere i principi, la logica e i criteri di scelta economici (come spesso pensano, auspicano o temono, scrivono e dichiarano molte persone che hanno responsabilità decisionali nella società o influenzano la cultura della società e le decisioni di altre persone) ma significa affermare che il maggiore o minore grado di razionalità con cui si svolgono i processi di acquisizione di beni economici e di loro destinazione al soddisfacimento dei bisogni possono contribuire in termini positivi o negativi al perseguimento dei fini istituzionali». In che modo vanno generate nuove idee di riposizionamento sociale, vanno ripensati i valori, gli obiettivi, la missione delle istituzioni culturali? Poco tempo fa sono stato ad un Salzburg global seminar dedicato proprio alla cultura in lean times. Questo think tank americano fondato da tre harvardiani nel 1947 in Europa, riunisce un paio di volte l’anno sessanta leader mondiali, per lo più professional, per discutere a porte chiuse, dodici ore al giorno e per cinque giorni su un argomento specifico. Vi ho tratto molti insegnamenti, non solo dai contenuti presi in considerazione, ma anche dal modo in cui sono stati affrontati.
 
Riprendendo la formula di successo delle “Tre T” di Richard Florida di qualche anno fa, mi permetto di coniare anche io le “Tre C”: per primo, attivare e sostenere le Conversazioni libere, per pensare al futuro. L’Italia ha scoperto da qualche anno i think tank, già diventati per molti politici una moda o una necessità, a seconda dei punti di vista, ma sicuramente sono un ottimo inizio, almeno quelli che funzionano veramente come lo fu Glocus all’inizio, e negli ultimi anni FareFuturo e VeDrò. Secondo, imparare a Cancellare i pregiudizi, ideologici, politici, religiosi: la globalizzazione non ne permette più la persistenza almeno quando questi diventano vincoli allo sviluppo, alla crescita e al benessere collettivo. Per iniziare si può anche guardare “a cuore aperto” alle idee e alle esperienze degli altri. Infine rivedere la missione e i valori delle istituzioni culturali in stretta Connessione alla nuova realtà delle cose. Abbandonare una volta per tutte il riferimento del proprio ombelico come centro del mondo.
Wordsworth ha detto: «Noi abbiamo creato la metà del mondo che vediamo». Il nostro stato mentale non è altro che il frutto della realtà che percepiamo. Qualsiasi cambiamento dipende dalla nostra volontà. E proprio perché il mondo è sempre più un tutt’uno (ce lo ricordano quotidianamente le conseguenze dei disastri ambientali, delle crisi economiche, dei conflitti religiosi) ed essendo la rinascita nel mondo già in incubazione, in Italia possiamo scegliere di guidarla oppure di subirla. Gli ultimi dati economici parlano già per il 2010 di una ripresa della crescita del Pil mondiale. Ma la maggior parte dei Paesi, tra cui in primis quelli europei, vi dà un contributo modesto, sempre sotto l’1%; il traino è dagli emergenti, soprattutto l’ormai nota quaterna del Bric (Brasile, Russia, India e Cina).
Cinque gli obiettivi primari che ci si dovrebbe porre a medio termine: creare nuova offerta culturale, nuove forme e contenuti contemporanei, ma anche offrire nuove modalità di lettura dei contenuti tradizionali; approcciare nuovi modelli di gestione delle organizzazioni. Terzo obiettivo, imparare ad utilizzare le tecnologie digitali, che stanno cambiando il mondo e i suoi cittadini, ma che ancora non sono sfruttate a pieno; sostenere la creatività, non solo professionale, quindi coinvolgendo anche il pubblico, che vuole interagire e non essere passivo alla produzione culturale (uno degli effetti delle tecnologie digitali). Per ultimo, ricredere nella formazione, nelle competenze, nella preparazione dei singoli così come delle organizzazioni nel loro complesso.
 
La cultura, in un periodo di disorientamento come questo, favorisce la crescita dell’autostima e delle capacità espressive, la scoperta di temi universali che oltrepassano il tempo, lo spazio e le persone, la possibilità di emergere dalla quotidianità, la diffusione della bellezza e delle emozioni. La cultura aiuta a creare un’alternativa ai valori economici e di mercato che hanno generato la crisi di oggi, in linea con l’esigenza di eticità che da più parti si invoca.
È importante sottolineare che i valori culturali non esistono in quanto tali, ma sono il frutto della sinergia che si crea tra artisti, istituzioni e pubblico. La responsabilità dell’operatore culturale non è statica né permanente, è proprio lui il volano di tale connessione. Per arrivarci egli deve avere una visione d’insieme, generale, di lungo periodo.
La legittimazione è un problema centrale, anche per avanzare pretese verso il legislatore quando cerca di tagliare il sostegno economico pubblico. Essa non è un traguardo, tanto meno una rendita, che una volta acquisita rimane nel tempo. È un qualcosa che si riceve dagli altri e rimane sempre in discussione. Da chi? Dagli utenti, dai colleghi, dagli artisti, dalla collettività, dai contribuenti pubblici e privati. Una constituency fluida, i cui pesi interni cambiano in continuazione. Bisogna saper essere adattabili, flessibili e aperti al cambiamento. Si pensi a due settori che più di altri stanno soffrendo questa incapacità: le biblioteche e i teatri lirici.
Si è premiati se si è vitali, non longevi. Nessuna istituzione ha il diritto di esserci in quanto tale, deve dimostrare il contributo che offre alla vitalità della cultura e alla creazione di conoscenza. Quanto dà alla società. Purtroppo il benessere degli ultimi decenni ha portato ad un’eccessiva pigrizia, mentre è la curiosità il carburante sociale. Essa è il driver delle innovazioni, spinge ad esplorare anche nuovi lidi, più lontani, meno sicuri, ma è nella scoperta che si trova il germe del progresso, dell’evoluzione, della crescita.
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