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Nucleare, l’attrazione fatale

Il 27 maggio corso, il presidente americano Barack Obama, a più di un anno dal suo insediamento, ha fatto conoscere la sua “dottrina” che, per quanto riguarda il tema della proliferazione nucleare, non presenta grosse novità, a parte l’intenzione di superare le alleanze tradizionali degli Stati Uniti per abbracciare “nuove partnership con i centri emergenti di influenza”, con evidente riferimento a Cina, India e Brasile, considerato che “l’America non può farsi carico da sola dei fardelli del mondo”. Sulla questione nucleare, Obama ha chiesto all’Iran e alla Corea del nord “una scelta chiara” tra dialogo e isolamento: “Se ignoreranno i loro obblighi internazionali, utilizzeremo mezzi molteplici per aumentare il loro isolamento e ottenere che si conformino alle norme della non proliferazione nucleare”.
In precedenza, l’8 aprile, Obama aveva firmato con il suo omologo russo, Dmitri Medvedev, a Praga, il nuovo trattato – lo Start-2 – per la riduzione delle armi nucleari, apposta dal presidente americano, mentre a Washington, il 12 aprile, si era svolta, con scarsi risultati, la conferenza quinquennale “di rassegna” del Trattato di non proliferazione (Tnp).
Questi appuntamenti racchiudono i tre aspetti della problematica nucleare: riduzione delle armi nucleari per gli Stati che già ne dispongono, eventuale ingresso nel club di altri Paesi e centrali ad uso civile, per la produzione di energia elettrica, evitando che gli impianti di arricchimento dell’uranio possano essere utilizzati per scopi militari. A sottolineare la pregnanza di tali questioni, legate tra loro, il dipartimento della Difesa americano ha fatto pervenire al presidente Obama un rapporto secondo il quale, entro il 2015, l’Iran disporrà di un missile intercontinentale, in grado di raggiungere il territorio Usa, probabilmente armato di una testata nucleare, se il programma iraniano non verrà fermato.
 
Aspetti economici, strategici e politici si intrecciano e si collegano alla sempre presente questione energetica ed alla sicurezza internazionale, a sua volta legata alla lotta contro il terrorismo. Obama, a Washington, ha insistito particolarmente sull’aumento di probabilità che un’organizzazione terroristica riesca ad impadronirsi di un ordigno nucleare. Eppure bisogna constatare che la reazione dell’opinione pubblica a questa intersezione di allarmi – crisi energetica sempre alle porte, eventualmente per motivi politici; accesso di altri Paesi all’arma nucleare; possibilità che un ordigno nucleare entri in possesso di terroristi – non è pari all’oggettivo pericolo insito in ciascuno di questi tre ambiti. La fine della Guerra fredda ha cambiato la percezione del pericolo di uno scontro generalizzato: se le due superpotenze non si sono scontrate – si pensa – perché una guerra con il ricorso all’uso di armi nucleari dovrebbe scoppiare adesso? E, poi, dove e per quale motivo se l’unica emergenza globale percepita dalle masse è di natura economica? L’attentato sventato a New York ai primi di maggio, con la scoperta di un’auto imbottita di esplosivo, ha rilanciato l’allarme. Ma quanto durerà? L’eruzione vulcanica in Islanda ha fatto più danni economici dell’11 settembre.
Quanto a crisi energetiche, un po’ a causa della recessione economica innescata dalla crisi finanziaria, petrolio e gas sembrano fluire regolarmente verso le aree di maggior consumo con il prezzo medio del barile di greggio che oscilla intorno agli 80 dollari. La proliferazione, infine, non sembra fare paura poiché si è consolidata una certa assuefazione alle bizze della “lontana” Corea del nord – anche se l’affondamento della corvetta sudcoreana ad opera di un siluro lanciato da un sottomarino nordcoreano il 26 marzo ha di colpo fatto salire la tensione – e alle dichiarazioni bellicose del presidente iraniano Mahamud Ahmadinejad che ha accusato con toni forti gli Stati Uniti, intimando loro di ritirare le armi nucleari dai Paesi alleati, Italia inclusa.
 
I maggiori leader politici non sembrano in grado di spiegare la reale consistenza dei pericoli in maniera convincente. Non solo per il ricordato cambiamento di clima dell’opinione pubblica mondiale, ma soprattutto perché sono impegnati in un campo dove la gente percepisce di avere un interesse concreto e diretto, e di sentirsi minacciata nella vita quotidiana: la crisi economica con la disoccupazione ad alti livelli e la crisi finanziaria che rispunta minacciosa, questa volta con epicentro in alcuni Paesi dell’Unione europea e, più in particolare, dell’Eurozona, andando a lambire la credibilità dell’euro. Lo stesso Obama, nella sua “dottrina”, ha inserito l’economia nel vasto campo della “sicurezza”. Ne segue che i tre aspetti della questione nucleare appaiono separati e nessuno di essi, preso singolarmente, sembra attirare sufficiente attenzione.
Eppure lo Start-2 è un risultato importante: le due superpotenze militari hanno deciso di ridurre, entro sette anni, il numero delle rispettive testate a circa 1550, cioè a un terzo dei loro attuali arsenali. Si tratta di un risultato “storico”, ma esso non sembra avere inciso sul comportamento delle altre potenze nucleari, che non avvertono in questa ulteriore riduzione un incentivo a procedere sulla stessa strada. Altri Paesi affermano che, per la propria sicurezza, nella logica della deterrenza, l’arma nucleare è necessaria o comunque è un diritto al quale non possono rinunziare. E aggiungono che Usa e Russia mirano piuttosto a perfezionare ulteriormente i loro arsenali dal punto di vista tecnologico, a spostare il divario di sicurezza sullo scudo protettivo e a mettere a punto nuovi sistemi d’arma. Quanto a Israele, in prima linea di fronte alle minacce del presidente iraniano, richiama l’attenzione sui progetti nucleari dell’Iran, ma deve fronteggiare anche un’offensiva pacifista su Gaza che sembra avere fatto breccia sul presidente Obama.
 
In ogni caso, il problema della non proliferazione emerge nella sua drammatica attualità. Ma in questo campo non esiste un allineamento politico-diplomatico tra le potenze nucleari “legittime” (cioè le cinque che ufficialmente dispongono di armi nucleari e hanno firmato il Tnp, con Stati Uniti, Russia e Cina in testa) e quelle di fatto (che non hanno firmato il Tnp, come India, Pakistan, Corea del nord ed Israele), per cui resta aperta la “finestra di accesso” a chi volesse entrare nel “club”. L’attenzione è concentrata sull’Iran. Il punto è che non solo non si delinea un accordo forte per bloccare le sue pur ambigue intenzioni, ma si manifesta un certo attendismo anche presso i suoi vicini islamici, tra i quali emerge il dinamismo della Turchia, che, se l’ipotesi paventata si verificasse, sarebbero pronti a fare altrettanto “per motivi di sicurezza”. Tutta la situazione è su un piano inclinato. La prospettiva di “un mondo senza armi nucleari”, evocata nella dichiarazione finale dei ministri degli Esteri G8 e, l’anno scorso, durante il vertice G8 a L’Aquila, rilanciata dal presidente Obama dopo la firma dello Start-2 e al summit a Washington sulla sicurezza nucleare, resta un auspicio. I tre pilastri del Tnp – disarmo, non proliferazione e uso pacifico del nucleare – restano slegati.
Infine, l’uso pacifico del nucleare sotto il controllo dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica). Le centrali attualmente in funzione nel mondo sono 439 e, secondo la stessa Aiea, producono circa il 16% dell’energia elettrica, il 34% di quella europea. Sono in costruzione 34 centrali, di cui 11 in Europa (7 in Russia), anche se la maggior parte è concentrata in Asia (6 in India, 3 in Corea del sud, 3 in Cina e 2 a Taiwan). Facile comprendere il giro d’affari legato alla ricerca, alla progettazione, alla costruzione e alla vendita delle centrali, nonostante i tempi lunghi. Il disastro della piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico sembra quindi destinato a rafforzare la spinta verso il nucleare, con ricadute anche a favore degli impianti ad energia rinnovabile. La lezione è sempre la stessa: il nucleare non si può disinventare.
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