L’immagine del mondo al quale apparteniamo ci è stata a lungo restituita soprattutto dalle storie, ma da qualche tempo, mentre quelle si accumulavano disordinatamente nella memoria sempre più confondendosi, senza prima né dopo, si affida con maggiore fiducia piuttosto all’immobilità della geografia: l’altra faccia della medaglia, appunto, dove la natura nella sua essenziale purezza riconquista il primato.
I luoghi, suggerisce Giorgio Ficara nella premessa a Riviera (Einaudi, pp. 188, 18,50 euro), «oggi non esistono più», o piuttosto «si sono nascosti in un mondo irreale» e «non si vedono», «si perdono giorno dopo giorno», spogliati di ogni storia, ritornati semplicemente natura «impenetrabile e chiusa al pensiero».
La scrittura, dunque, oscilla inquieta e ostinata di fronte a un luogo «indifferente e inaccessibile alle parole», mescolando storia e paesaggi, memorie e sogni, in una sorta di «non racconto», una struggente e luminosa elegia in tre tempi, che brevi sequenze di «storie» interrompono evocando remote stagioni quando le avventure conducevano lontano per poi tornare carichi di ricchezze materiali e interiori.
Gli uomini di ogni posto di mare sono perennemente in partenza lungo strade imperscrutabili che non conservano traccia di qualsiasi passaggio, tutte cancellandole con il semplice sciacquio delle onde non appena la prua è corsa avanti. Il mare è lo scenario misterioso e sconfinato di ogni riviera che ad esso si affaccia, pronta a mischiarsi lungo la spiaggia come a respingerlo dove si erge scoscesa, al tempo stesso confine e frontiera, limite e valico. Il mio mare suona nella bocca dei liguri identico al mio male – mae mâ -, al tormentoso struggimento di una malinconia sconsolata, di una nostalgia carica di rimpianti. La riviera di Ficara è prima di tutto luogo dell’anima, dove si acquieta «l’affanno perpetuo» ed è possibile «non far nulla» abbeverandosi pienamente alla sorgente di ogni felicità: «la mia felicità, in Riviera, non pretendeva nulla. Era disponibile in casa e in paese, giorno dopo giorno… Mi accoglieva e mi lasciava libero e solo».
Certo a evocarne la bellezza e la quiete soccorrono, da Virgilio a Petrarca, le immagini indimenticabili dei poeti, ma lo scrittore, che è anche autorevole studioso, nota che la regione, «fino al Novecento, non ha quasi una letteratura», ha piuttosto una «cultura pratica», una sapienza concreta, e per questo assai poco sublime, meschina persino nella sua attenzione alle cose.
Eppure nel secolo scorso la Liguria s’è rifatta alla grande: da Sbarbaro a Montale la vena lirica, dimenticati i doveri quotidiani dei traffici, lasciate in rada le barche di un tempo – i gozzi, i leudi -, è sgorgata cristallina e copiosa, anch’essa malinconica e aspra come la terra battuta dal vento e strappata ai monti palmo a palmo.
Rispetto ad altri libri di geografia letteraria di questi anni – e basti per tutti Danubio di Claudio Magris – Riviera rinuncia a qualsiasi movimento, ignora la dimensione del viaggio, neppure tenta l’avventura della metafora, semplicemente insegue, sulle orme di Monet, quella «”luce” assoluta», che è al tempo stesso «assoluta estraneità al mondo nuovo, fatto di luce e di ombre», puro e «inconfondibile» colore, nel quale «tradirsi e smarrirsi».
Perché mai uno studioso di letteratura, esperto di Leopardi e di Casanova, insegua se stesso nell’immobile bellezza di un luogo, nell’intatta felicità di un orizzonte sconfinato, nella rigenerante freschezza di una natura materna e segreta, è domanda che trova molteplici e ambigue risposte nelle pagine mai gratuite di questo libro dove la scrittura persino cede talvolta spazio a qualche suggestiva illustrazione d’arte e fotografia, mai paga di quanto pure esemplarmente dice, che in ogni caso non basta a dare conto dell’intero universo di sensi e di sentimenti che è lo straordinario mondo interiore di chi scrive e che il luogo conserva e tramanda.