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Il lievito della speranza

«L’inerzia è portata a nutrirsi di se stessa, ad autoalimentarsi. E così diventa una malattia endemica che fiacca l’anima stessa di una società. Siamo entrati nel nuovo secolo, nel nuovo millennio, senza grandi sogni e prospettive. Il rischio è che tutti viviamo di inerzia. La globalizzazione, un fenomeno assolutamente straordinario, incontrando un mondo senza più ideali ha universalizzato per lo più solo il mercato, poco la democrazia e ancor meno la solidarietà. Di fatto ci si è come ripiegati su se stessi. Sia i singoli che gli Stati sono preoccupati soprattutto del proprio benessere. Potremmo dire che è cresciuta la ricchezza economica – sebbene non per tutti; la forbice tra ricchi e poveri si è allargata – ma è diminuita la forza dello spirito, la spinta degli ideali. Non voglio ovviamente demonizzare il mercato; è un fatto positivo. Ma se non viene accompagnato anche dalla crescita di un’etica globale, se non diveniamo più consapevoli del primato del bene comune su quello particolare, è ovvio che il futuro del mondo resta oscuro. E cresce la paura».
 
La paura di ciò che è davanti a noi si è trasformata in un incubo. Il timore è quello di non svegliarsi più da questo torpore, triste come le passioni che evoca.
«C’è bisogno di tornare a sognare, di tornare a sperare, di pensare al bene comune di tutti, del proprio Paese come dell’intero pianeta. E questo è possibile se si percorre la via della cultura e quella della spiritualità. C’è bisogno di aprire la mente per aprire gli occhi. C’è bisogno di visioni nuove, ampie, che riescano a pensare le cose vicine e quelle lontane. È la via della cultura che passa attraverso la riscoperta del proprio passato e la passione di un futuro migliore per tutti. Ma questo non è possibile senza una sorta di risorgimento della cultura. Oggi purtroppo corriamo il rischio – tutti dobbiamo metterci una mano sulla coscienza a partire dai mezzi di comunicazione – di vivere di banalità. E la banalità è all’origine di trappole mortali. C’è poi la seconda dimensione da risvegliare, quella della fede. La società chiede un maggiore coinvolgimento del cuore, di una nuova passione, di un riferimento Alto. La vita spirituale è determinante per una società più generosa e più altruista. Per citare l’ultima enciclica del Santo Padre, abbiamo bisogno di più veritas e di più caritas».
 
Le speranze viaggiano più facilmente sulle gambe dei più giovani. Anche la Chiesa auspica un maggiore impegno da parte delle nuove generazioni nella vita politica. Si tratterebbe di intridere il tessuto civile e sociale del Paese con i valori di una religione che sa distinguere ciò che è di Cesare.
«Facciamo un passo indietro. La ferita più grave che io vedo nel cristianesimo contemporaneo, e che Papa Benedetto XVI sottolinea nella enciclica Spe salvi, è la visione individualista della fede. Che fatalmente diventa anche privatista. Un cristianesimo vissuto in maniera individuale diviene complice dell’individualismo delle società contemporanee. Ma così il cristianesimo perde forza, diviene scipito, fiacco e senza energia. La fede per sua natura è sociale. Un grande teologo del ‘900, Henri De Lubac, parlava a ragione di “dimensione sociale della fede”. E un altro suo contemporaneo, il cardinale Jean Daniélou ha scritto un testo dal titolo L’orazione, problema politico. L’impegno per la politica o, meglio, l’impegno per il bene comune, è parte integrante della vita del credente. La fede spinge il credente a trasformare il mondo. E l’Eucarestia è la forza che spinge il credente a trasformare la realtà sociale nella quale vive. I cristiani, infatti, per riprendere la tesi dell’antica e nota lettera a Diogneto, non si costruiscono città proprie, non parlano una lingua propria, essi abitano le città di tutti, parlano la lingua di tutti, ma per essere fermento di una socialità nuova. Insomma, dovrebbe essere quasi inutile esortare i cattolici ad impegnarsi nella polis. Basterebbe dire loro: “Siate cristiani”. Perché il cristiano, per sua natura, deve operare per il bene comune di tutti, dell’intera società».
 
Il tema è come coniugare il singolare con il plurale. E se questo vale per la politica italiana, tanto più vale nel confronto fra noi e “gli altri”. Il nostro Paese si affaccia su un mare piccolo che in realtà è stato ed è una grande culla di civiltà e di religioni. Il Mediterraneo che pure è così parte del nostro passato sembra oggi lontano dal nostro orizzonte.
«La Chiesa è stata istituita da Gesù per essere nel mondo segno e strumento dell’unità di tutti i popoli. Nel cuore della comunità cristiana c’è l’ansia di una fraternità universale. È un tema affrontato dai Padri della Chiesa in maniera ampia. L’allora giovane teologo Ratzinger espose con chiarezza questo pensiero in un volume il cui titolo era L’unità delle nazioni. L’incontro con l’altro – con gli altri – fa parte del Dna del cristiano. Essi esistono per spingere il mondo ad incamminarsi verso la fraternità universale. Il Vangelo ha iniziato la prima vera globalizzazione. E possiamo dire che la prima realizzazione della globalizzazione è avvenuta nel Mediterraneo e ad opera soprattutto dei cristiani. Per secoli gli abitanti del Mare nostrum non hanno eretto barricate, non sono vissuti separati gli uni dagli altri: le città mediterranee erano città multietniche, multi-religiose. Certo, non è stata sempre una convivenza leggera, anzi! Però in tutte le città c’erano la chiesa, la moschea, la sinagoga. E oltre alle merci circolavano anche le idee e i pensieri. Lo scambio culturale era straordinario. Certo, la convivenza non è mai stata scontata, era necessario coltivarla, promuoverla. Oggi purtroppo il rischio più grande che stiamo correndo, a partire dalle città mediterranee, è che non possiamo più vivere se non in città pure “etnicamente”. Sono città “morte” alla vita sociale e dal futuro triste».
 
La minaccia della jihad islamica e dell’arroccamento dell’occidente può determinare l’innalzamento di nuovi muri e steccati.
«Il fenomeno della jihad va contrastato convincendo i nostri amici, o alcuni dei nostri amici islamici, a percorrere la prospettiva culturale che ha segnato gli ultimi secoli dell’Europa. Dove, senza intaccare la fede si è giunti, ad esempio, alla separazione tra Stato e Chiesa, alla definizione della libertà di coscienza, della libertà di culto, della valorizzazione della dignità di ogni persona umana, del rispetto della donna e così oltre. E questa prospettiva culturale non è un indebolimento della fede o della propria identità. C’è bisogno anche qui di promuovere maggiori scambi culturali. Faccio un esempio: per decenni abbiamo commerciato per il petrolio, ma quasi nessuno scambio c’è stato sul piano culturale. Quanti barili di petrolio abbiamo scambiato? E di biblioteche? È stato un errore strategico che oggi paghiamo molto caro. L’Impero romano, che pure non era dolce, portò le strade e cultura nei diversi Paesi che occupava. Nel primo secolo un abitante di Tarso poteva affermare “civis romanus sum”».
 
Gli errori, passati e presenti, non si contano. Ed è per questo che si guarda alla Chiesa come ad un faro. Oggi però la preoccupazione è che questa luce venga offuscata dalle polemiche. Restando così tutti al buio.
«Benedetto XVI ha saputo guardare con coraggio alla sporcizia che c’è anche nella Chiesa e ha chiamato le cose con il loro nome. E pretende che avvenga la purificazione dal male. In un momento difficile come quello che stiamo attraversando, che vede la Chiesa sul banco degli imputati, ha avuto il coraggio di dire che il vero nemico non è fuori ma dentro la Chiesa. Non è esemplare la Chiesa in questo? Quale Stato, quale governo, quali intellettuali, hanno fatto un simile mea culpa sugli incredibili errori che sono stati fatti ieri e che spesso si continuano a fare ancora oggi? Non andrebbe detto con chiarezza? La Chiesa non ha avuto paura di ammettere le proprie colpe. È segno di umiltà e anche di forza.
Tuttavia, a mio avviso, si dovrebbe avere una maggiore audacia nel mostrare la straordinaria ricchezza della fede e delle opere che la Chiesa manifesta in ogni parte del mondo. Non per diminuire la responsabilità delle colpe ma per rivendicare l’autorevolezza della Chiesa. Sarebbe drammatico per il mondo se venisse meno l’autorevolezza morale della Chiesa: si perderebbe il più solido pilastro morale nel contesto internazionale. Dobbiamo essere tutti più consapevoli di questo problema».
 
Come singole persone e come comunità siamo oggi più che mai in cerca dell’anima o anche solo di una speranza.
«Di fronte ai preoccupanti scenari che abbiamo di fronte, la tentazione più comune è quella di ripiegarci su noi stessi e di pensare che non si può fare nulla. In questo modo saremmo comunque complici dell’inerzia e della rassegnazione. In verità c’è da riscoprire la straordinaria forza che è ogni persona umana. L’uomo e la donna hanno la facoltà e la forza di cambiare il mondo. Gli uomini, se vogliono, guidano e non subiscono la storia. Se apriamo bene gli occhi, sia sul passato che sull’oggi, vediamo che nel cielo della storia brillano tantissime luci, piccole magari, ma che rischiarano e comunque indicano il cammino. C’è bisogno che ciascuno accenda la scintilla di amore che Dio ha posto nel cuore di ognuno. Per i cristiani la responsabilità è ancora più grande: abbiamo ricevuto in dono lo Spirito santo, ossia la forza dell’amore di Dio. Se accogliamo l’amore e lasciamo che cambi il cuore, anche il mondo cambierà».


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