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Economia, dal sociale al civile

Perché l’economia sociale di mercato (Esm) non può essere confusa e tanto meno assimilata all’economia civile di mercato? Un chiarimento si rende necessario prima di entrare in argomento. Quella dell’economia civile è una linea di pensiero esclusivamente italiana che nasce nell’età dell’Umanesimo civile (XV secolo), quando l’economia di mercato, come oggi la conosciamo, inizia a prendere forma e prosegue fino alla prima metà del secolo XVIII con i contributi, veramente notevoli, degli illuministi della scuola sia napoletana (Antonio Genovesi – cui si deve l’invenzione dell’espressione economia civile nel 1753 – Ferdinando Galiani, Giacinto Dragonetti) sia milanese (Pietro Verri, Cesare Beccaria, Giandomenico Romagnosi, Melchiorre Gioja).
A partire dalla fine del Settecento, grazie all’enorme influenza del pensiero smithiano, l’economia civile viene soppiantata e totalmente emarginata dal discorso economico. È solo nell’ultimo ventennio che, per tutta una serie di ragioni che non ho qui la possibilità di illustrare, si assiste ad una lenta ma robusta ripresa, nella ricerca scientifica e soprattutto nell’agire economico, della prospettiva dell’economia civile, la cui cifra è quella di far stare assieme, nel momento stesso in cui una società procede al disegno del suo assetto istituzionale, i tre principi base di ogni ordine sociale e cioè il principio dello scambio di equivalenti, il principio di redistribuzione, il principio di reciprocità.
 
Come noto, per Eucken – uno degli artefici dell’economia sociale di mercato – il sistema economico va guidato sulla base di “principi formativi” – quelli cioè che definiscono la natura e l’essenza dell’economia di mercato – e di “principi regolativi” – quelli che ne fissano i modi di funzionamento. I primi includono il primato della politica monetaria (che deve assicurare la stabilità del valore della moneta); l’apertura dei mercati alla libera e piena concorrenza; la tutela e la salvaguardia dei diritti di proprietà; la libertà d’impresa e la sua difesa dai rischi di monopolizzazione; la continuatività dell’azione di politica economica da parte dello Stato. I cosiddetti principi regolativi riguardano invece la difesa dal rischio dei monopoli naturali da attuarsi a mezzo di una ferrea politica a favore della concorrenza; la politica dei redditi attuata allo scopo di assicurare un’equa distribuzione delle risorse per mezzo di un’imposizione fiscale di tipo progressivo; l’intervento statale volto a correggere, con un sistema di tasse e sussidi di tipo pigouviano, le esternalità generate dall’attività economica degli agenti; l’intervento statale sul mercato del lavoro che – come è ovvio – non funziona secondo i canoni della legge della domanda e dell’offerta e che va dunque regolato per evitarne l’autodistruzione.
 
Sulla medesima linea di pensiero si muove W. Röpke quando scrive che il corretto e sostenibile funzionamento dell’economia di mercato postula un forte inquadramento morale e politico-istituzionale i cui elementi identificativi sono i quattro seguenti: “un minimo di onestà in affari”, simile al codice di moralità mercantile di cui aveva parlato Adam Smith; “un forte Stato” in grado di assicurare quella sicurezza di cui i cittadini hanno bisogno per svolgere la propria attività; “un’intelligente polizia dei mercati”, dato che questi ultimi non sono in grado di autogovernarsi né di auto-correggersi; “un diritto profondamente meditato e conforme alla costituzione economica”, (Cfr. La crisi sociale del nostro tempo, Torino, Einaudi, 1946, pp. 64-65). Non vi è chi non veda come una simile architettura di pensiero non possa fare a meno di un ruolo non secondario dello Stato nell’economia, tanto è vero che il modello di organizzazione economica della Esm, fatto proprio dalla Cdu (Cristiano democratici) nel 1949 – notevole il ruolo svolto a tale riguardo da L. Erhard – verrà successivamente adottato dalla Spd (Social-democratici) nel 1959. Invero, quando si espungono, addirittura dal lessico politico-economico, termini quali reciprocità, fraternità, dono come gratuità (da non confondere con dono come regalo) e quindi quando non si riconosce che possono esserci soggetti d’impresa, diversi dalle imprese capitalistiche, in grado di produrre valore economico, è ovvio che l’unico ente al quale chiedere di far funzionare bene il mercato sia lo Stato. Al tempo stesso, i modi di intervento di quest’ultimo sono o quelli dell’intervento diretto in economia o quelli della normazione legale. Ma cosa dire delle norme sociali (le norme la cui esecutorietà è affidata alla vergogna) e delle norme morali (la cui esecutorietà è associata alla colpa)? Sappiamo bene che se la norma legale non è in sintonia con la norma sociale e/o con quella morale, si è di fronte a inexpressive law, che quasi sempre generano risultati perversi, come la storia del nostro Mezzogiorno ampiamente dimostra. Ma v’è di più. Mentre l’impianto filosofico dell’Esm è il deontologismo di stampo kantiano, la matrice filosofica dell’economia civile di mercato è il personalismo di derivazione tomista. Non c’è qui lo spazio per elucidare le differenze tra le due posizioni. Basti solo ricordare che se nell’orizzonte deontologico vige il primato del giusto sul bene, fino al punto in cui fiat iustitia, pereat mundus (I. Kant), per il personalismo, invece, è vero il contrario e cioè che il bene ha il primato sul giusto – come già Aristotele insegnava. C’è, infine, un terzo elemento che non consente di assimilare l’Esm all’economia civile di mercato. Si tratta dello spazio, veramente notevole, che l’economia civile riconosce alle organizzazioni della società civile sul piano propriamente economico e non solo su quello culturale e politico – il che non accade per l’Esm. Ci si può chiedere: perché nella prospettiva dell’economia civile così largo spazio viene riconosciuto a soggetti che operano bensì dentro il mercato con logica imprenditoriale, ma senza finalità di tipo lucrativo, soggetti cioè che oggi denominiamo organizzazioni a movente ideale? Perché l’economia civile sa bene che il mercato capitalistico non “secerne” concorrenza, ma tende, naturaliter, al monopolio – una proposizione questa che già A. Smith aveva anticipato nella sua Ricchezza delle Nazioni (1776) quando scriveva che due e non una erano le mani necessarie per far funzionare il mercato: invisibile l’una, operante per mezzo di quel meccanismo noto come eterogenesi dei fini; visibile l’altra, attraverso l’azione dei poteri pubblici. Ebbene, la grande intuizione del pensiero economico-civile è che la più efficace difesa contro i rischi della monopolizzazione dell’economia, più ancora che l’intervento statuale, è il pluralismo delle forme d’impresa. Nel mercato devono poter operare, in condizioni di effettiva parità, imprese capitalistiche, imprese sociali, imprese cooperative, fondazioni varie, senza che l’assetto giuridico-istituzionale privilegi l’una o l’altra forma. È la competizione tra tipi diversi di impresa e non solo tra imprese dello stesso tipo a garantire sia il buon funzionamento del mercato sia la vera libertà di scelta da parte dei cittadini consumatori. Tutto questo non c’è nell’Esm.
 
In buona sostanza, i requisiti necessari a sorreggere l’impianto dell’Esm sono troppo vicini e simili a quelli richiesti dalla teoria contrattualista della giustizia come equità, quale è quella sviluppata da John Rawls nel 1971, perché possano essere accolti toto corde da chi si riconosce nelle posizioni dell’economia civile di mercato.
Sorge spontanea la domanda: perché mai oggi c’è bisogno dell’economia civile di mercato? In altro modo, perché nelle condizioni odierne la economia sociale di mercato non è più in grado di raccogliere le sfide di una società post-moderna? Di ciò dovremo occuparci in altra sede.


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