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Un bilancio difficile

Barack Obama, nella politica estera sembra costretto in una posizione di attesa. Intanto non ha rinunciato a qualche tentativo di scompaginare gli equilibri interni dell’Unione europea, un sistema che reca disturbo all’egemonia economica americana. Egli ha cercato di fare pesare infatti – in una organizzazione europea per definizione e per interessi prevalenti – gli interessi politici americani. Il suo appoggio all’ingresso della Turchia nella Ue, sembra doversi leggere proprio in questa prospettiva (“Obama: la Turchia a pieno titolo in Europa”, intervista al Corriere della Sera, 8 luglio 2010). Intanto si è già aperto il problema delle elezioni americane del 2012.
È dall’Afghanistan che si dovrà forse incominciare il dibattito sulla eventuale rielezione di Obama, che in tutta evidenza appare al centro dell’interesse del presidente. La corruzione del governo di Kabul ha continuato a salire verso vette talmente elevate da costringere la stessa amministrazione americana a riconoscere gli abusi e a chiedere a quel governo di porre qualche freno. Nel Paese si è fatto intanto un nuovo tentativo elettorale (18 settembre 2010). Ufficialmente, sono stati attaccati 150 seggi, con quattordici morti (dati sul Corriere della Sera, 19 settembre 2010).
 
Dall’Iraq, Obama ha annunciato (I settembre 2010) invece il ritiro, mantenendo limitate forze americane con compiti di addestramento dei locali, ma promettendo anche l’invio di pericolosi war maker privati.
Sul fronte dell’occupazione, Obama non è riuscito a raggiungere qualche risultato. Nell’agosto 2010, i dati hanno continuato ad essere allarmanti, con una tendenza all’aumento dei disoccupati americani.
C’è però una grande scommessa, che il presidente ha voluto riaprire, assegnando agli Stati Uniti il ruolo di protagonisti: la pace in Palestina. Obama ha convocato un incontro alla Casa Bianca fra Benjamin Netanyahu, premier israeliano, e Mahmoud Abbas, presidente palestinese (I settembre 2010). Un incontro ineguale: da una parte il presidente di uno Stato forte, armato, ricco, consolidatosi territorialmente con azioni generalmente illecite dal punto di vista internazionale, sostenuto tradizionalmente dagli Stati Uniti; dall’altra il rappresentante di un popolo accampato su un territorio che si restringe, vessato da divieti di movimento, che talvolta impediscono perfino il trasporto di ammalati negli ospedali, dalla confisca dei territori, da rappresaglie militari collettive.
Un nuovo incidente petrolifero grave ha colpito la Louisiana, con l’esplosione della piattaforma della Merimer Energy, Inc., nel golfo del Messico (quotidiani del 2 settembre 2010).
Talvolta Obama dà quasi l’impressione di avere una consapevolezza della debolezza attuale dell’intera civiltà occidentale: della quale gli Stati Uniti hanno la leadership militare. Sintomi di un pericolo di questo genere se ne possono cogliere.
 
C’è stata prima di tutto l’incapacità, a lungo coltivata, di capire altre civiltà, altri modi di organizzare il consenso, altri sistemi politici ed economici che hanno la loro forza; altri sistemi di scambio, sviluppati al di fuori dei nostri parametri. Il mondo occidentale si è mosso secondo modelli ideologici molto schematici, incapaci di cogliere e accettare le complessità e le diversità che esistono nel mondo. Nessuna ragione morale o logica, se non l’interesse e una storica supponenza, possono consentire all’occidente di affermare che i sistemi diversi dal proprio non abbiano una legittimazione e non possano prevalere. Se qualcuno – Obama? – tutto questo lo avvertisse davvero, sarebbe un bel passo avanti; forse anche un antidoto; uno strumento prima intellettuale e quindi politico di difesa: molto più efficace della corsa alle armi tradizionali, dell’incremento del “prodotto interno lordo” e dei correlati anatemi basati sugli indici e le classifiche creati dai leader dell’economia occidentale.
Una presa di coscienza, forse, dei limiti di una competitività a oltranza? Essa distrugge interi sistemi economici, senza badare che la sua regola basilare rende potenti le forze capaci di distruggere, in nome di quella regola, e talvolta con le armi. Sta maturando forse nell’occidente una coscienza dell’impossibilità, per esempio, di continuare a devastare le aree esterne (Africa specialmente) con l’esportazione di rifiuti tossici, che non si sa più come gestire? Un sistema di produzione e di dominio questi problemi non li può ulteriormente ignorare. Obama sembra quasi intuirli; sembra soprattutto alla ricerca di qualche rimedio, anche se tanti interessi – quelli petroliferi, per esempio – frenano la sua azione. Anche dal punto di vista militare è forse tempo di chiedersi se l’America, con le sue armi micidiali, conservi ancora il monopolio della forza nel mondo. Del tutto in controtendenza va invece il mantenimento – anche da parte di Obama – di quella grande muraglia del New Mexico che isola gli Stati Uniti dalla “contaminazione” delle immigrazioni.
 
Obama ha fatto ritornare la retorica nella comunicazione politica. La retorica non doveva essere eliminata del tutto. Ingrediente necessario quando non si limita alla suggestione, essa contiene messaggi sui quali si sollecita l’attenzione, il consenso, il sostegno popolare. Essa fu strumento dei dittatori, certamente, ma fu protagonista di tutta la politica del Ventesimo secolo, anche di quella delle opposizioni. Poi venne messa da parte. Se Obama riuscisse a ridare dignità a quello strumento dandogli dei contenuti sostanziali, farebbe opera politicamente significativa.
Talvolta il presidente quello strumento lo adopera con qualche eccesso di enfasi. Per esempio, in questo annuncio: “Il Senato ha appena approvato la riforma di Wall Street”, che “rappresenta la più audace regolamentazione finanziaria dopo le conseguenze della Grande depressione e la più forte protezione del consumatore nella storia”. Questo ha fatto comunicare (18 luglio 2010, ore 18:08:03). Le conseguenze, non si annunciano straordinarie.
Le prossime elezioni presidenziali si terranno negli Stati Uniti il 6 novembre 2012. La campagna elettorale per Obama si è già riaperta. Un secondo mandato gli servirebbe per realizzare un programma di qualche significato. La destra vuole impedire una sua rielezione. Fra le novità, la candidatura di Christine O’Donnell, come emblema dei candidati anti-Obama. È sostenuta da un movimento anti-tasse, intriso di motivi vecchi e nuovi del patriottismo americano. Organizzando tanti tea party, lei si sta preparando per concorrere intanto a un seggio senatoriale nel Delaware e poi alle votazioni del 2 novembre. A destra, si profilano candidati aggressivi. I repubblicani sono al lavoro intorno a una ventina di nomi. Fra questi, si nota finora un gruppo di governatori ed ex governatori: Haley Barbour del Mississippi; Jeb Bush della Florida; Chris Christie del New Jersey; Mitch Daniels dell’Indiana; Mike Huckabee dell’Arkansas; Bobby Jindal della Louisiana; Gary E. Johnson del New Mexico; Sarah Palin dell’Alaska; George Pataki di New York; Tim Pawlenty del Minnesota; Rick Perry del Texas; Mitt Romney del Massachusetts. Ma ci sono anche gli “innovativi” della comunicazione, dei valori americani, e quindi della politica; fra di loro, cominciano a farsi notare alcune donne.
Naturalmente, soprattutto Obama mostra di essere in campagna elettorale; in verità, non aveva mai smesso di esserlo, con una propaganda martellante fatta di messaggi elettronici e di richieste di contributi, anche di pochi dollari, per sostenere la sua macchina. Anche la sua disponibilità alla costruzione di una grande moschea a New York, sembra andare in questa direzione. Un secondo mandato a Obama sarebbe necessario per realizzare un programma veramente caratterizzante, per superare le incertezze, le contraddizioni, certi vuoti del primo mandato; d’altronde, restare in carica per un solo quadriennio equivarrebbe ad una sconfitta politica. Obama sembra perciò al lavoro per la rielezione.


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