“Storie di formiche”, così descrive e definisce i suoi personaggi lo stesso autore, i quali poi non sono che Assunta e Alessandro (Einaudi, pp. 134, euro 18.00), i suoi genitori, che certo non appartengono ai “grandi”, che la storia “la grande storia” quella che conta, la fanno, ma a quell’infinità di uomini che sembrano passare senza lasciare traccia o altra memoria, se non quella “familiare”.
Alberto Asor Rosa, dunque, dopo aver studiato le vicende e le opere della nostra letteratura per mezzo secolo e avere al tempo stesso partecipato al dibattito politico-ideologico con appassionata militanza, affronta con filiale pietà la propria memoria per ritrovare lungo quell’incerto percorso un senso e un’identità, per attingere a quella “grande riserva di energia” che essa stessa, al pari di tutte le altre “storie senza storia”, contiene. In fondo lo storico della letteratura ha dedicato studi e intelligenza ai grandi e grandissimi scrittori del passato, a chi cioè è stato capace di consegnare alla sua scrittura quel tanto di verità può aprirsi allo sguardo dell’uomo, e nel farlo ha proceduto con metodo rigoroso, avvalendosi degli strumenti che la disciplina aveva pazientemente elaborato; ora, invece, il figliolo, diventato intanto anziano – «sei diventato vecchio anche tu» gli dice a un certo punto la madre –, giunto anch’egli prossimo alla meta, volge il suo sguardo all’indietro per riconoscere da dove è venuto e al tempo stesso per misurare quanto effettivamente abbiano contato nella sua esperienza e identità la lezione di vita, il sistema di valori, la storia condivisa coi genitori, destinata certo a confondersi con tutte le altre che sono state travolte dalla dimenticanza per scomparire in quel vuoto, in quell’“assenza di destino”, che è il segno più inequivocabile del tempo della modernità, ma intanto inesorabilmente vive e vitali, presenti in ogni momento dinnanzi agli occhi del figlio, alla sua coscienza. Alberto, anche nei suoi precedenti libri di narrativa – a cominciare da L’alba di un mondo nuovo (2002) – è scrittore niente affatto incline al sentimentalismo, refrattario al patetico, anzi ostinatamente teso alla definitoria chiarezza della ragione e alla limpida luminosità della certezza, così di Alessandro e di Assunta ricostruisce con precisione le vicende biografiche, i luoghi della vita, le esperienze più drammatiche e importanti, non trascurando gli affetti, e tanto meno il suo, che si accende vivo e vibrante sulla pagina, ma confinando anch’esso nel suo ruolo “storico”, nella sequenza di cause ed effetti che intanto corre lungo tutto il Novecento.
Eppure la vita di Alessandro e di Assunta non riesce a stare tutta nelle poche date evocate e neppure nei più gravi momenti che attraversano fieri e al tempo stesso leggeri; agli individui, quando si incontrano e poi si parlano, si vogliono bene, si sposano, vanno a vivere insieme e poi fanno un bimbo e lo crescono, capita di trasformarsi e diventare diversi, così a lui è toccato per cinque anni di fare il soldato e di stare in trincea durante la Prima guerra, e a entrambi di attraversare affamati, ma illesi, l’interminabile Seconda. La vita non è la cornice del ritratto di due belle persone, è la scena cangiante e decisiva che ne illumina i tratti e ne definisce i caratteri, è il tempo e lo spazio che ci aiuta a interpretarne le scelte, a intuirne i segreti, o soltanto a riconoscerne le pene e i dolori per sentirli anche nostri, per condividerli se non si riesce a comprenderli. Alessandro è stato controllore capo delle Ferrovie ed era un uomo forte e generoso, allegro e socievole; Assunta è più chiusa, ma anche “bellissima” – lo si vede assai bene nella foto in copertina –, pronta al sacrificio e all’umile vita domestica, ma anche innamorata della natura e degli animali e poi caparbia e severa, attenta al figliolo che si tiene accanto quando può. L’incontro tra i due, per quanto amoroso e felice, deve affrontare ostacoli e incomprensioni, difficoltà e sofferenze: talora “l’aureo triangolo si scombina” e ci vuole molta pazienza e buona volontà, ci vuole della “buona educazione”, della “proprietà” e del “decoro”, per lasciare sbollire le ire e non far deflagrare i risentimenti. Alberto li segue anche in questi momenti tesi e difficili e poi durante le loro vecchiaie sofferenti: evoca la depressione paterna, lo sprofondare in un buio solitario e disperato, e l’invalidità della madre, la sua orgogliosa pretesa di farcela, fino a desiderare “fortissimamente” la morte.
La vita è trascorsa e ormai siamo “dopo” di essa, con la speranza “che un giorno li rivedremo”, della quale non riusciamo a fare a meno davvero, ma, soprattutto, con la certezza che “ogni giorno li rivediamo”. Com’è vero e soprattutto come è detto bene, con pacata fermezza.