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Grazie, signor presidente

Le parole di Giorgio Napolitano stanno diventando via via più pesanti e cariche di significati. Il presidente non guarda alla crisi con aria corrucciata, con lo stupore altero dell’uomo di Stato sorpreso dal degrado del dibattito politico o con la retorica di chi fa appello ad una unità nazionale di facciata che sembra cedere il passo davanti alle divisioni. La scelta degli interlocutori e le espressioni usate nelle ultime settimane chiariscono il senso di questa presidenza della Repubblica. Il capo dello Stato ha elogiato i sindaci riuniti a Padova, nell’assemblea nazionale dell’Anci, perché sanno trovare convergenze che superano le fratture politiche, ha rivolto parole di affetto ai giovani di Vicenza che hanno spalato le strade invase dal fango dell’alluvione perché hanno saputo “costruire fiducia”, ha esaltato i medici che si prodigano per il progetto-Africa perché obbediscono all’“imperativo della solidarietà che la Costituzione definisce inderogabile”. Nei giorni in cui l’Italia affronta la crisi politica più difficile, con inediti risvolti istituzionali e con minacce sempre più gravi che incombono sull’economia e sulla tenuta politica del Paese, Napolitano ha ricordato che “non ci si può concedere il lusso del pessimismo”. Ma non è un atteggiamento di buona volontà che il presidente esorta a ritrovare.
 
Napolitano declina il suo “pensare positivo” con le parole di un buon dizionario riformista quando dice che “bisogna essere ottimisti, nutrire speranza, ma sapendo qual è il prezzo dell’ottimismo, della speranza, cioè una visione realistica, lucida, anche impietosa delle prove che ci attendono”. È questa forse la chiave per capire la caratteristica principale e l’assillo dell’attuale inquilino del Quirinale. Mentre si esaurisce il tempo delle cicale, il popolo delle formiche viene condotto con mano ferma a scoprire le difficili mete della ricostruzione di un riparo comune. Giorgio Napolitano è il primo presidente che pone al centro del suo messaggio il dovere di governare e di farlo con scelte nette, che tengano assieme l’emergenza e la prospettiva, il sacrificio e la giustizia. Proviamo a leggere un suo recente discorso in Veneto: «Oramai c’è una grandissima confusione, un buio, un vuoto di riflessione e di confronto su una questione cruciale. Quella delle scelte da compiere o delle priorità da osservare… Abbiamo un debito pesante sulle spalle e dobbiamo fare i conti con una situazione finanziaria complessa, difficile e rischiosa sul piano internazionale… La risposta deve essere un contenimento della spesa pubblica. Ma dobbiamo tagliare tutto o non tagliare niente? Io non credo che non dobbiamo né non tagliare niente né tagliare tutto.
 
L’arte della politica, la presa di coscienza e l’assunzione di responsabilità da parte dei pubblici poteri consiste proprio nel fare delle scelte, nello stabilire delle priorità, nel dire “no, a questo non possiamo rinunciare, non possiamo derogare”, mentre ad altro possiamo rinunciare». Già, l’arte della politica, le scelte, la responsabilità, le priorità. Nell’ultimo anno il Quirinale ha “invaso” il campo della vita pubblica con numerosi interventi. Ha usato la mano ferma e discreta sulla legge che si occupava di intercettazioni telefoniche e ha fermato il Senato quando stava stravolgendo le prerogative del capo dello Stato in materia di immunità. Ha difeso la magistratura, ma ha criticato il circuito mediatico-giudiziario. Ha stimolato la realizzazione del federalismo, ma ha messo in guardia dai rischi di nuove fratture fra nord e sud. Non è stato indulgente né con il governo né con l’opposizione quando ha temuto che il contrasto politico stesse trasformandosi in una contesa distruttiva. In queste settimane cercherà di tenere nell’alveo istituzionale il fiume in piena di una crisi che ha il carattere della débâcle di sistema. I sondaggi dicono che il Quirinale ha la fiducia degli italiani, la politica sa che le proprie manovre saranno passate al vaglio di un custode severo della Costituzione. Ma se ha ragione il presidente quando dice, come abbiamo ricordato, che «non ci si può concedere il lusso del pessimismo», è vero soprattutto che l’Italia non ce la farà senza un salto culturale della sua classe dirigente perché «io sento – sono le sue parole – la necessità forte che si superi questo vuoto di riflessione e di confronto».
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