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Un pericoloso circolo vizioso

Bassa produttività, bassa crescita e alto debito pubblico: l’economia italiana rischia di rimanere prigioniera di questi problemi che si alimentano in una sorta di circolo vizioso. Pesa la debolezza strutturale della nostra economia che si traduce in una dinamica della produttività del tutto insoddisfacente. Ciò provoca a sua volta una perdita di competitività. Gli effetti hanno cominciato a manifestarsi, come ad esempio una ripresa delle esportazioni minore di quella che ci si poteva aspettare e un inizio di debolezza dei conti con l’estero con cui prima o poi dovremo fare i conti. Ce n’è abbastanza per essere preoccupati. Fra le proposte di riforme strutturali vi è anche quella del nostro mercato del lavoro.
Da un certo punto di vista sorprende l’affermazione – che si sente ripetere con una certa frequenza – che il mercato del lavoro italiano sia tra quelli più rigidi del mondo. Questa è la conclusione cui spesso arrivano le classifiche sulla competitività che vengono costruite sulla base di interviste a manager di imprese multinazionali, che si spostano in varie parti del mondo e che quindi dovrebbero essere in grado di fare gli opportuni confronti tra le caratteristiche dei mercati del lavoro dei diversi Paesi. Eppure se si guarda alla classifica dei Paesi stillata dall’Ocse (un classico in materia) sulla base della rigidità delle legislazioni sul lavoro, si osserva che il nostro Paese è in una posizione intermedia, con una rigidità del lavoro inferiore, sia pur di poco, a quella di altri Paesi importanti, come Francia e Germania. L’Italia era in fondo a questa classifica, ma ha recuperato molto terreno in seguito alle riforme della legislazione del lavoro realizzate a cavallo degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. È pur vero che queste riforme si sono concentrate sulla flessibilità dei rapporti di lavoro di natura temporanea e che poco hanno fatto per ridurre la rigidità dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Questo fatto ci viene sempre rimproverato come difetto principale delle nostre riforme recenti, che avrebbero in questo modo accentuato la segmentazione del nostro mercato del lavoro, sino al punto di creare uno spartiacque enorme tra “insider” e “outsider”. Questo è vero, ma solo in parte. E le conclusioni cui si arriva sono alquanto esagerate.
 
La nostra percentuale di lavoro temporaneo è in linea con la media europea. Il che non vuol dire che va bene così. Anzi, tutti i Paesi europei dovrebbero fare più attenzione a non segmentare il mercato del lavoro in due tronconi e a fare più sforzi per evitare le “trappole” del lavoro temporaneo. Ma non bisogna nemmeno pensare che questo sia un problema tipicamente italiano. Stando ai dati e alle informazioni che vengono raccolte per fare confronti tra Paesi diversi, non risulta che questo sia uno specifico problema italiano. Sembra essere invece un problema italiano quello di una generale rigidità del mercato del lavoro, che viene lamentata da molti operatori, anche stranieri, che operano sul nostro territorio. Questa rigidità “percepita” sembra prescindere, almeno in parte, dalla rigidità della legislazione. Le lamentele riguardano non tanto e solo le regole scritte, quanto gli effettivi comportamenti, quelli messi in atto sia nell’ambito delle politiche del lavoro che delle relazioni sindacali. Ad esempio il nostro Paese spende poco per le politiche del lavoro, sia quelle attive che quelle passive e la mancanza di servizi efficaci e sufficientemente mirati a risolvere problemi concreti pesa negativamente sul giudizio di imprese abituate ad operare in contesti in cui le politiche del lavoro facilitano maggiormente l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro. Ma vi sono altri fattori che pesano sui costi e la produttività delle imprese: si pensi ai costi della giustizia o ai costi sostenuti per l’inserimento al lavoro dei diversamente abili. Pesa infine negativamente il tono spesso conflittuale delle relazioni industriali, un elemento questo che difficilmente può essere catturato e misurato nelle statistiche che mettono a confronto le condizioni dei diversi Paesi. Eppure queste sono spesso le cose più importanti. Nonostante il numero eccezionalmente elevato di accordi che vengono conclusi a livello nazionale e locale, l’impressione che spesso viene offerta dal nostro sistema di relazioni sindacali è quella di meccanismi di regolazione del conflitto incerti e complessi, che alzano i costi di transazione e negoziazione. Anche per questo motivo (ma non solo per questo) sono diminuiti gli investimenti esteri in Italia. Nel nostro Paese, una iniziativa nel campo del “shared capitalism” sarebbe un contributo utile per smussare i toni antagonistici che troppo spesso caratterizzano il confronto tra imprese e sindacati. In fondo uno dei punti di forza della Germania di cui si fa un gran parlare in questo periodo, sta proprio nella capacità di distinguere, nelle relazioni industriali, il momento del conflitto distributivo dal momento della costruzione delle condizioni che permettono al sistema delle imprese di investire e di avere successo nei mercati internazionali. Nel nostro Paese il momento conflittuale si estende troppo spesso alla fase costruttiva del sistema di relazioni industriali, la fase in cui tutte le parti in gioco dovrebbero lavorare all’unisono per garantire migliori condizioni di competitività, da cui possono poi scaturire migliori condizioni di vita e di lavoro degli stessi lavoratori. In un’ottica, appunto di partecipazione. Le relazioni industriali del 2010 hanno presentato due caratteri distintivi. Innanzitutto l’“affare Marchionne” con tutte le sue implicazioni sulla revisione del modello contrattuale. Quando si pensava che la riforma del modello voluta da Cisl, Uil e Confindustria fosse persino troppo avanzata per ottenere il consenso della Cgil, ci si è accorti che non era più sufficiente per risolvere i problemi della più grande impresa metalmeccanica del Paese. Che chiedeva per sé e forse anche per conto di altre grandi imprese che potenzialmente potrebbero essere interessate a localizzarsi in Italia, relazioni sindacali più partecipative e un sistema contrattuale più decentrato.
 
Rispetto alla riforma del 2009, si è trattato di un “rilancio” di una certa importanza. E con questo dovranno fare i conti non solo la Cgil, ma anche la Cisl, la Uil e la stessa Confindustria. Dall’altro lato il 2010 è stato un anno di promesse e di rinvii. Ne sono testimonianza le iniziative peraltro interessanti in tema di “statuto dei lavori”, piano nazionale del lavoro, riforma degli ammortizzatori, la partecipazione dei lavoratori in azienda, ecc. Persino le iniziative in tema di arbitrato e di apprendistato, che sembrano essere pienamente realizzate, sono ancora lontane dall’aver dato frutti concreti. Si guarda al futuro, ma nel frattempo il presente incombe. Al presente le parti sociali sono invece particolarmente interessate e hanno persino aperto un tavolo per dare inizio ad un possibile Patto sociale. È presto per dire se possa funzionare e avere prospettive. Senz’altro la presenza del governo al tavolo è essenziale e le intenzioni che il ministro dell’Economia ha manifestato agli inizi di novembre per affrontare il problema della crescita sembrano andare nella giusta direzione. Ma proprio a novembre le prospettive di avere un governo in piena salute si sono alquanto offuscate. I problemi del presente sono invece pressanti. La disoccupazione nel nostro Paese, comunque la si misuri, non accenna a diminuire e questa persistenza apre le porte alla disoccupazione di lunga durata. Quest’ultima, più che il cosiddetto “precariato”, rischia di diventare il problema “numero uno” del nostro mercato del lavoro. Le aziende sono sfiancate da una ripresa che tarda a venire e che rende l’utilizzo della cassa integrazione sempre meno efficace. Un utilizzo che sempre più si mostra per quello che è: un semplice rinvio dei problemi di ristrutturazione, che dovranno essere affrontati in una congiuntura di stagnazione. Con effetti inevitabili sull’occupazione. In un momento in cui i segnali positivi che si stanno manifestando in alcuni settori e presso alcune aziende non sembrano essere sufficienti a volgere in terreno decisamente positivo la dinamica aggregata della domanda di lavoro.
In conclusione, i problemi sul tappeto richiederebbero interventi importanti, ma sia le parti sociali che il governo non sembrano in condizione di affrontarli con la dovuta incisività.


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