È sempre la stessa la questione che assilla lo scrittore: dove si nasconde il senso di questa nostra vita? Cosa lo rende invisibile? Perché gli uomini in sua assenza si abbandonano rassegnati al fluire inarrestabile del tempo fino a quando non è del tutto consumato?
È stato sempre così da un quarto di secolo, quando la sua storia di narratore è cominciata sotto l’insegna di un “diario” che era al tempo stesso generazionale ed epocale, ed è stato così durante una quindicina di libri che sono stati immaginati come parti di un tutto più grande, o smontati come altrettanti segnali di un percorso lungo il quale non si vorrebbe smarrirsi, ma ci si aspetta di venir ritrovati per virtù di quanto si è scritto e stampato.
Per Marco Lodoli la vita senza le opere è davvero insensata, persino di più di quanto lo siano le opere senza la vita, e così si consuma raccontando tutte le storie che immagina o, che è lo stesso, immaginando tutte le esistenze che racconta, che poi raccoglie a mazzetti di tre sotto un nuovo titolo, persino più suggestivo degli originali: ha cominciato con I principianti, che raccoglie Crampi, Grande Circo Invalido e Fannulloni (1990-93), poi ha continuato con I pretendenti, che mette insieme Il vento, I fiori e La notte (1996-2001), e ora ha aggiunto a Sorelle (2008) quest’ultimo Italia (Einaudi, pp. 104, euro 15), che aspettano di completarsi di nuovo con un terzo racconto.
Ancora una volta, con uno scarto premeditato, Lodoli allontana da sé la voce narrante, elude qualsiasi possibilità di identificazione, sceglie anzi una mediazione impegnativa, carica di significati simbolici e di suggestioni ideali, che spiazza d’un colpo ogni risvolto autobiografico, ogni identità sociale e culturale.
A raccontare è Italia, una povera orfana cresciuta al di fuori di qualsiasi contesto condivisibile, nell’isolamento di una comunità infelice, e che da questo “non luogo” viene proiettata all’interno di una tipica famiglia borghese – non per caso “Marziali” sin dal cognome – nella quale una coppia di genitori frustrati dal destino che loro ha riservato la storia – lui, l’ingegnere, “aveva fatto la guerra dalla parte sbagliata” – prova a educare tre figli – Marianna, Tancredi e Giovanni – che oppongono al mondo com’è il sogno di un amore assoluto, la rabbia di una rivoluzione violenta e il progetto di un’arte salvifica, scoprendo, uno dopo l’altro, che tutte le vie di fuga finiscono di fronte a un baratro che capovolge il senso di tutti gli ideali nelle miserie di una sequenza di colpe e di scacchi senza scampo. Lo sguardo di Italia – nome inequivocabilmente allusivo alla totalità del Paese – è al tempo stesso attento e disincantato, puntuale ma disilluso: se da un lato riconosce che “ogni casa ha un suono, un ritmo…, una musica”, dall’altro ha imparato che “ognuno deve fare ciò che deve e nient’altro”, e che “chi pensa troppo, pensa male”.
Così, guardando la vita piuttosto di viverla, Italia misura sull’esperienza degli altri le contraddizioni di un mondo che consuma il benessere conquistato – quello stesso che a lei da sempre è stato negato – e spoglia di significato qualsiasi inquietudine, qualsiasi speranza.
A disintegrare l’ordine antico interviene ogni volta il disordine nuovo, a vanificare la solidarietà degli affetti provvede la dispersione nel mondo dei membri della stessa famiglia, a complicare ogni cosa ci pensa la coscienza, perché “essere se stessi per un’esistenza intera può essere un peso insopportabile, una maledizione”.
In fondo, Lodoli attinge con imprevedibile libertà al proprio vissuto, fa i conti con i nodi della sua autobiografia, ma, allontanando i fatti, i sentimenti, le responsabilità nel disegno che ne traccia Italia, sembra liberarsi di tuttii coinvolgimenti possibili e andare oltre qualsiasi “giudizio” come solo la letteratura sa fare.