Caterina Bonvicini ha accumulato nel giro di questi anni cinque libri per adulti e uno per ragazzi, piano piano imponendosi come una delle voci più limpide e forti del secolo nuovo, soprattutto ha il coraggio – la spudoratezza verrebbe da dire – di affrontare “dritta dritta”, senza sotterfugi o soluzioni preconfezionate, i nodi più drammatici dell’umana esistenza.
Aveva cominciato prendendola larga, partendo da lontano, narrando la vita di una stravagante pittrice settecentesca ricostruita da un puntiglioso biografo due secoli dopo, per inseguire subito dopo il ritratto di una generazione sgangherata che attraversa il suo tempo “di corsa” senza saper bene dove vuole andare, quasi sopraffatta dalla propria e altrui stupidità.
Poi, virando nettamente direzione, ha puntato il suo sguardo disincantato sul dolore del vivere nelle sue manifestazioni più radicali, dal suicidio alla depressione, senza venirne travolta, anzi riuscendo a descriverle con lievità e persino ironia, cosicché in qualche modo si intravvede una via d’uscita, la possibilità di conviverci e chissà mai di domarle.
In questo nuovo romanzo – Il sorriso lento, Garzanti (pp. 214, euro 17,60) – la questione è altrettanto drammatica e dolorosa, perché si tratta della morte terribile di una giovane donna aggredita da un cancro invincibile mentre è appena diventata madre.
A raccontare la sua storia straniante è Clara, l’amica del cuore da una vita, costretta a misurarsi col vuoto che resta, incolmabile: in un momento la memoria scolora, i suoni si confondono, gli odori svaniscono e resta solo l’assenza.
Eppure, se «la vita è una successione di mondi che finiscono», c’è una strada «per tornare a un’intimità, un’intimità vera, almeno con la sua memoria» che passa attraverso la faticosa accettazione della “separazione”, il riconoscimento dell’“irrevocabile” di quanto è accaduto, perché “tornare indietro” non si può se non con le parole del ricordo, con il recupero paziente di quanto è stato, che solo ai vivi è concesso.
«La morte è solitudine», ma al di là di essa, della sua definitività, resiste più forte l’esperienza del vissuto, la ricerca dei sentimenti, il piacere delle gioie condivise, l’energia di una risata, anzi della “risatona”, che scoppia improvvisa e coinvolgente.
Clara di Lisa − l’amica perduta − ricorda molte cose e più di tutte la splendida amicizia che è proprio un “privilegio”, tanto più perché insieme, anche con altre ragazze, facevano un gruppo resistito all’usura degli anni, alla varietà degli incontri, alle sorprese del cambiamento.
Clara, Lisa e le altre e poi i loro uomini, i figli, le famiglie, di fronte all’orrore del male che uccide si stringono solidali fino alla fine; non è il dolore a separarle, ma soltanto la solitudine che succede all’assenza, dove neppure le parole hanno il medesimo senso per tutti.
Solo quando tutto è finito ognuno si chiude in se stesso, sente inaridito il colloquio amicale, quasi impossibile la condivisione della pena e della disperazione. Meglio è, piuttosto, specchiarsi nel dolore uguale di uno sconosciuto, quasi fuggendo in un mondo parallelo.
A Clara e Lisa si contrappongono, dunque, Ben e Anna, la cantante e il più anziano direttore d’orche¬stra, che mai hanno imparato davvero ad amarsi, tanto che neppure la morte li aiuta a comprendersi.
L’incontro dei sopravvissuti, di Clara e Ben, in una Londra livida e desolata, è senza storia, serve solo a riscoprire più forte la gioia perduta, il “privilegio” che è stato, l’inesauribile tesoro dei ricordi e il senso autentico di quel “sorriso lento” che “si apriva gradualmente” con “tutta un’armonia dietro”, e che nella memoria si rivela proprio «il sorriso della fine. La vita che rallenta, che decelera fino all’immobilità, un po’ alla volta».
Insomma, «la vita nella sua interezza» è fatta anche di “spezzature” violente, con le quali non c’è che misurarsi straziati e persino felici.