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In connessione perpetua

I nuovi mezzi di comunicazione di massa si distinguono dai vecchi soprattutto per l’interattività. La televisione, old media, ci autorizza soltanto a cambiare canale. Il giornale, sempre old media se non è on line, ci autorizza a scrivere una lettera che può semmai comparire nella “posta dei lettori”. Il videogame, esempio certo spurio ma accettabile di new media, è dotato di un ambiente interattivo molto più ampio e ci autorizza molti più interventi fino a cambiare la narrazione stessa di cui esso è composto, se solo ne abbiamo voglia.
I nuovi media sono di massa soprattutto per quel che riguarda le connessioni, le relazioni. E, secondo Boccia Artieri, questo cambia la nostra posizione nella comunicazione. Eravamo abituati a pensarci come pubblico, come fruitori passivi; siamo diventati soggetti pieni della comunicazione, soggetti che interagiscono e si espongono in prima persona. I nuovi “nativi digitali” hanno una diversa idea di amicizia, di relazioni sociali e anche di partecipazione. L’amicizia proposta dai social network è digitale e questo significa che può fare a meno della concretezza di luogo e spazio, e per certi versi può anche fare a meno della duratività, ha cioè meno bisogno di quel prolungamento temporale che, sin dai temi di Aristotele, contraddistingueva le nostre più profonde amicizie.
 
Eppure l’amicizia sui social network può essere intima come le amicizie reali, raggiungendo così la cosiddetta intimità digitale, o limitarsi a essere semplice contorno e pubblico per la propria autoesposizione. I cento e cento amici di cui ci si può vantare se si è presenti su Facebook sono in realtà il pubblico per le proprie comunicazioni, ciò che ha contribuito a trasformare la società dei mezzi di comunicazione di massa in società dei mezzi di comunicazione di massa e di ciascuno. In questa nuova società le persone e le tribù, o più propriamente le tribù digitali, si aggregano con grande libertà spaziale e temporale. Finito il tempo del luogo fisico, finito anche il tempo delle divise, degli oggetti e delle mise che erano necessarie per distinguere e suddividere una tribù dall’altra; finito, infine, il tempo dei riti di passaggio, necessari per poter appartenere a pieno titolo ad una tribù. E con i riti di passaggio, finito anche il tempo necessario perché questi potessero attuarsi. Oggi ci si aggrega e ci si mette in relazione e, addirittura, si entra a far parte di una tribù digitale in poco tempo. Le nuove tribù digitali esibiscono una maggiore autonomia, una indipendenza di giudizio e di attività che le vecchie tribù non permettevano. In ultimo, va aggiunto che tribù digitali sono tribù carsiche, compaiono e scompaiono a piacere, a seconda del bisogno e della necessità.
E tutto questo è potuto accadere perché i nuovi media, e in specifico i social network, abituano ad essere al centro dei processi. Oltre alla interattività, una seconda e fondamentale differenza che corre tra old e new media consiste nel fatto che questi ultimi stanno smettendo di essere soltanto mezzi. La merce umana come condizione ultima e definitiva di commercio da parte del capitalismo cognitivo di cui parlava Rifkin si è ricollocata all’interno dei nuovi media che sono in realtà ambienti: “[…] veri e propri luoghi nei quali fare esperienza quotidiana, in grado di dare forma all’habitus cognitivo dell’individuo” (Boccia Artieri, in Mazzoli, 2009).
 
Sempre secondo Giovanni Boccia Artieri, si è entrati in una fase in cui quei fili invisibili che corrono all’interno di una società, e che sono composti di relazioni amicali, lavorative, di potere, che compongono gli ambiti di amicizia e strutturano le regole di cortesia e che, in definitiva, articolano ciò che una volta si sarebbe definito lo stare in società, in poche parole le differenti e innumerevoli tipologie di legami che affollano la vita quotidiana delle persone tendono a divenire visibili, vale a dire a testualizzarsi. È ciò che hanno definito “connessione perpetua”, e che i nativi digitali vivono ormai quale condizione quotidiana.
I nuovi media permettono di “fare media”, nel senso di costruire blog, filmati, foto, testi che possono poi viaggiare sulla rete ed essere potenzialmente visti da milioni di persone. E consentono inoltre di “diventare media”, nel senso che le relazioni quotidiane e la vita di tutti i giorni degli individui diventano una comunicazione di massa. L’area della notiziabilità si è allargata fino a comprendere la vita quotidiana di milioni di persone. Si può raccontare tutto, le cose fatte e viste e che sparirebbero nel vortice delle mille azioni di un giorno e che in questo modo vengono invece testualizzate. “Vengono prodotti contenuti mediali che partono (spesso) dalle vite concrete degli individui ma che sanno parlare a un pubblico”.
Un ulteriore punto di vista attraverso cui si potrebbe analizzare lo stesso fenomeno riguarda l’enorme facilità a costruire filmati e, volendo, a svolgere vere e proprie inchieste giornalistiche grazie al video che può produrre un semplice cellulare.
 
Le conseguenze di tutto ciò sono varie e significano la presa di potere da parte di quei comunicatori una volta marginali nell’agorà mediatica. Avviene il ripristino di certi generi letterari dimenticati, come i diari, i resoconti giornalieri, le corrispondenze quotidiane e i discorsi, ma anche lo sviluppo di movimenti, di aggregazioni spontanee (come i flash mobs) e di mobilitazioni dal basso. È per quest’ultima ragione che nascono le cosiddette comunicazioni dal basso, i grassroots e gli individui che, pure nella loro marginalità, rifiutano la rappresentatività dei mezzi di comunicazione di massa per esporsi finalmente in prima persona. Questo esporsi in prima persona è in realtà la conseguenza dell’essere tutti pubblici interconnessi tra loro. La costante autoesposizione sintetizzata dalla domanda più frequentata sulla rete: “Che cosa stai facendo?” diventa una pratica narrativa che potrebbe anche trasformarsi in un gesto filosofico di introspezione: “Già, che cosa sto facendo?”.
L’esigenza di dare continua tangibilità ai propri legami, ai propri sentimenti e ai propri stati d’animo, crea quello stato di “intimità digitale” che ha come chiara conseguenza il mutamento del rapporto pubblico/privato. Nonostante le leggi sulla privacy siano invenzioni tutto sommato recenti, assistiamo nelle società occidentali altamente informatizzate, oggi come non mai, a una estensione del privato nel pubblico. Si avverte una necessità di privato e di mantenimento della riservatezza dei propri ambiti proprio perché il privato si è eroso e consunto e sfuma, come afferma Boccia Artieri, in una sovraesposizione delle proprie vite in cui il privato diventa pubblico e le proprie intimità, tutte quante, diventano digitali.
Queste pratiche di esibizione fanno sì che tutto e tutti trovino modo di esistere e comunicare. È l’autocomunicazione di massa di cui parla Castells.
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