Quando si tratta di mobilitare la popolazione e accendere gli animi in vista di un conflitto, gli Stati trovano politicamente utile ricorrere alla massima pubblicità possibile. Ma se prevale l’interesse all’accordo e alla concessione, allora quegli stessi Stati usano il basso profilo, in modo da presentare il risultato compiuto alle opinioni pubbliche, evitando stroncature in corso d’opera. Per questo la richiesta di aprire gli archivi, e rendere tutto trasparente ed aperto, è in insanabile contraddizione con la realtà.
Io non credo affatto che Wikileaks sia un’operazione di intelligence manovrata dall’esterno o dall’interno. Qui c’è un giovane ufficiale che ha trafugato informazioni confidenziali e una rete che ha diffuso in modo del tutto legale, in base alla legge americana, le notizie così ricevute. E ciò che questi cablo rivelano non sono veri segreti: possiamo chiamarle “notizie indelicate”, ma non certo segreti, perché circolavano su computer a cui avevano accesso ogni giorno almeno 800mila persone. Anche il livello di classificazione di questi documenti era molto basso: si può allora parlare di “11 settembre della diplomazia”, nella misura in cui è entrato in crisi un sistema incredibilmente imprudente. Vivendo a Washington posso affermare, anche a rischio di sembrare un po’ riduttivo, che l’evidenza è che ci sono troppe persone in troppe ambasciate che chiacchierano troppo. Se si vuole mantenere un certo livello di protezione delle informazioni bisogna scrivere di meno, parlare di meno, far circolare meno le informazioni – e limitarne l’accesso diciamo a 20mila persone, che è già molto.
Julian Assange non mi sembra politicizzato: è essenzialmente un internettiano anarchico, che attacca tutto e tutti. Dal ciclone che ha scatenato non hanno nulla da temere i governi democratici che hanno una sola parola con cittadini e partner esteri. A soffrire di più sono quelli che usano sistematicamente la menzogna: i sauditi e i Paesi arabi che in pubblico parlano sempre di Palestina, mentre in privato non la menzionano nemmeno. Poi vi è un caso particolare, ed è quello del Pakistan, per cui è riduttivo parlare di doppiogiochismo. Lì una popolazione generalmente secolarizzata convive con una dirigenza politica che professa l’islam come ideologia statale, con forze armate “islamiche di professione”; quella stessa dirigenza che chiede l’aiuto finanziario americano per combattere i talebani, mentre in realtà li arma. E quando un governo fa il quadruplo gioco, basta qualche cablo per gettarlo nell’imbarazzo. La mia opinione è che a questo punto, anche se molto lentamente, si vada verso la rottura dell’alleanza Usa-Pakistan: non si può finanziare un governo che arma chi uccide i nostri soldati. Sullo sfondo resta il vero 11 settembre, di cui quest’anno cade il decennale, ma la mia opinione è che quell’attacco fu un colpo grosso tanto clamoroso quanto isolato, e che da allora i fondamentalisti siano tornati al normale terrorismo fatto di punture di spillo. Gli effetti che può avere questo terrorismo classico sono sotto gli occhi di tutti: basta guardare a Israele, che da sessant’anni ha a che fare con questa minaccia, e che da allora ha decuplicato la popolazione e centuplicato il Pil. Ciò che prendo sul serio non è il fondamentalismo terrorista, ma la deindustrializzazione, fatta non dai nemici ma dai nostri amici cinesi che stanno deindustrializzando tutto il mondo. Questa è la vera minaccia strategica.
Testo raccolto do Marco Andrea Ciaccia