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Orgoglio e pregiudizio. Terrone

Un Paese “duale”, a due velocità, fu costruito con le armi e la rapina, 150 anni fa; e poi mantenuto diviso con la politica e l’economia. Come l’energia sgorga da dislivelli, asimmetrie, così il motore di questo Paese, il nostro, è stato la riduzione del Mezzogiorno a colonia interna, al servizio del nord (per la fornitura di un mercato, di risorse, di braccia e di cervelli). Una posizione subordinata che comporta meno diritti ed espone alla denigrazione e all’insulto. Una minorità che, alla lunga, è stata considerata, anche da chi la subisce, naturale, endemica, meritata; dalla quale uscire somigliando il più possibile a chi la impone, neh! Pur così malfatta, l’Italia è diventata uno dei primi Paesi al mondo, conquistando successi economici e stima internazionale. Vi siete mai chiesti dove sarebbe, oggi, questo Paese, se invece di distruggere l’economia e il futuro di una parte così rilevante del suo territorio e della sua gente, ne avesse sfruttato le capacità e le risorse, insieme a quelle del resto d’Italia?
Quando l’Italia divenne un unico Stato, il sud non era più arretrato, più oppresso, più povero del nord. Lo si è detto e fatto dire (vedi la descrizione dell’inferno del Regno delle due Sicilie, fatta dal più “attendibile testimone”, lord Gladstone, che confessò poi di aver inventato), per giustificare l’intervento militare e l’annessione. Più o meno come si faceva con le terre da colonizzare: non si andava lì a rubare tutto quello che valeva qualcosa, ma a portare la civiltà, che nessuno aveva chiesto. Circa l’arretratezza del sud, si cita la condizione misera delle plebi napoletane e dell’interno, ricorrendo alla tecnica del “sì, ma…”.
 
Napoli era la terza capitale europea per magni¬ficenza, cultura, modernità. “Sì, ma”, i lazzari, i cafoni, i braccianti esposti ai soprusi dei nobi-li… Parigi e Londra non erano da meno, quanto a plebi (chiedere a quel Victor Hugo dei Miserabili, e a tal Dickens). Ma, mentre le eccellenze di Parigi e Londra fanno dimenticare le plebi, le plebi di Napoli fanno dimenticare le eccellenze (molte delle discipline che si studiano in tutto il mondo, dalla vulcanologia all’archeo¬logia, all’economia politica, alla rinata “scienza nova”, la storia, nascono a Napoli).
Quanto all’oppressione, nel Regno che fu tomba di Pisacane, fratelli Bandiera e qualche antagonista indigeno, il Paese preunitario che giu-stiziò più patrioti fu il Piemonte (persino più dell’Austria). E il sud non conobbe mai tanta oppressione e ferocia, come quando fu liberato. Né la maggior povertà del sud, rispetto al nord, esisteva al momento dell’annessione; fu generata. Lo dissero grandi studiosi del passa¬to, lo ha appena confermato il Consiglio nazionale delle ricerche. Con una differenza: dal meridione d’Italia non andava via nessuno, dal nord sì, a milioni. Per creare quella distanza fra nord e sud d’Italia chiamata “questione meridionale” fu necessario lavorare di armi e di saccheggio; e poi di leggi strabiche, per mantenerla. Sino a farla intendere come preesistente, eterna, inestirpabile e trasformarla in un difetto dei meridionali. I quali concordano. Missione compiuta! Una parte, e proprio la più nuova, della mia ricerca per Terroni, riguarda proprio i meccanismi di “costruzione della minorità”: sono potentissimi, veloci e duraturi, come mostrano gli esperimenti fondanti della psicosociologia e la nostra stessa esperienza (e quella di tutte le colonie). Nel sud, la sottomissione fu imposta con inauditi massacri e con la devastazione della struttura produttiva del Paese. Chi si oppose con le armi, i “briganti” (anche i nazisti chiamarono i nostri resistenti “banditi”), fu sterminato; chi cercò la costruzione di un sano destino comune del nostro Paese unificato (vabbé…), come Giustino Fortunato e altri, fu deluso; chi sacrificò persino la sua reputazione per quell’ideale, come Liborio Romano, morì di crepacuore. Molti altri, ridotti in miseria, fuggirono (ultima scelta di chi perde): l’emigrazione portò via almeno venti milioni di meridionali. E non era mai successo in millenni di storia del sud.
 
Se qualunque sia la tua risposta perdi, sei portato a concludere che non erano sbagliate le risposte o impossibili da rimuovere le circostanze ostili, in quel momento; no, ti convinci che tu sei perdente, qualunque cosa fai. E chi vince te lo conferma in molti modi: ti opprime, ti deruba, ti deride, ti insulta, ti accusa. Ti ci abitui. E se diventi uno di quelli che hanno successo (normalmente, andando altrove, dove le circostanze sono più favorevoli), ti proponi come dimostrazione della comprovata minorità di quelli che “non si danno da fare”. E più somigli a chi impone e sfrutta quella minorità, più te ne fai distante, con un’azione che salva i singoli per condannare i molti. Così, l’insufficienza delle circostanze (meno ferrovie, meno strade, meno scuole, meno investimenti) si trasforma nell’insufficienza di chi le subisce; quasi fosse geneticamente difettato, incompleto: non colpa dei ritardi, ma dei ritardati. E a quella minorità ci si adegua, la si fa propria, come un carattere acquisito.
Agli abitanti delle aree ridotte a colonia, per lo sviluppo dei propri talenti e la creazione di reddito, resta poco, oltre tre brutte “fabbriche”: la violenza (in tutte le colonie, o ex, compaiono potenti mafie); il posto pubblico (quelle comunità gregarie partoriscono pubbliche am-ministrazioni ipertrofiche, il che incrementa lo spreco e la corruzione); l’assistenza (e pretendi, e ti danno la pensione d’invalidità, pure se fai il trapezista). Tre strumenti con i quali il potere dominante controlla e ricatta la colo¬nia, con le mafie usate quale complice braccio armato, il posto e la pensione rubata, così ti chiamano pure ladro, per darti un reddito (scarso, si capisce) improduttivo, ma da poter spendere.
 
Poi, se il potere dominante si stufa (o non gli conviene più) può appellarsi al federalismo e scappare con la cassa, in nome dell’autonomia e della responsabilizzazione dei territori. Ma solo dopo aver rastrellato, da quei territori, tutto quel che valeva qualcosa e tutti quelli che valevano di più (per fortuna, non tutti). Per un “equo confronto” fra chi propone un duello avendo razziato l’armeria e chi è rimasto a mani nude. Se si vuole, lo si può fare il confronto, ma solo dopo aver garantito alle parti le “pari opportunità” (non soltanto alle belle del reame…): uguale sviluppo ferroviario e persino la stazione a Matera! Uguale rete autostradale; aeroporti e porti; stessa dotazione di scuole, università e attrezzature didattiche… Insom¬ma: trattare la parte scartata del Paese allo stesso modo di quell’altra. Così vediamo che succede, quando i turisti possono arrivare sulle nostre coste senza rimetterci un giorno per venire e uno per andarsene; le nostre merci raggiungere i mercati, in tempi e a costi non penalizzanti; i nostri studenti laurearsi vicino casa, senza necessariamente svenare le proprie famiglie (o rinunciare) e arricchire le città del nord. E via di seguito. Chiedo scusa: stavo, inavvertitamente, descrivendo un Paese unito, di quelli normali. Così, per il gusto di vedere com’è, non mi dispiacerebbe cominciare a farla l’unità (vera, eh!?), sia pure con 150 anni di ritardo.
 
Per gentile concessione dell’autore, estratto dal libro collettivo “MalaUnità” che sarà pubblicato a febbraio 2011


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