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Sfida mediorientale per le banche del dopo-crisi

La più importante sfida in campo finanziario per i musulmani è stata la creazione di un sistema finanziario che potesse fare a meno del tasso di interesse e della speculazione fondata sull’incertezza, prediligendo le transazioni di tipo reale e la condivisione del rischio. Da qui lo sviluppo di un tipo di finanza per cui la remunerazione (eventuale) per la raccolta e per le forme di impiego e di investimento è sostanzialmente connessa ad un’attività reale sottostante il negozio giuridico rilevante. In relazione alle forme di impiego, queste si possono distinguere in due grandi famiglie, a seconda del grado di partecipazione al rischio: a) il profit-loss sharing (Pls): si tratta di modalità di finanziamento, che possono strutturarsi in maniera differente, tutte accomunate dal fatto che la banca o la società finanziaria ed il prenditore dei fondi condividono il rischio dell’investimento; b) il non Pls: contrariamente alle tecniche Pls, queste forme di finanziamento presentano un rendimento predeterminato e sono associate a forme di garanzia, come ad esempio la proprietà del bene sottostante. Si tratta, nella pratica, di contratti di scambio, di trasferimento, di usufrutto o di agenzia, che benché non condividano il principio della condivisione del rischio, vengono generalmente considerati aderenti ai principi islamici perché il ritorno dell’investimento non è legato alla dimensione temporale dell’investimento stesso ma alla prestazione di un servizio. Infine, le banche islamiche prevedono la presenza di un organo chiamato Shari’a board, composto dagli Shari’a scholars (autorevoli esperti in legge islamica). Lo Shari’a board ha principalmente la funzione di certificare che l’attività bancaria venga svolta nel rispetto dei principi coranici e della religione islamica. I pareri sono espressi mediante l’emissione di fatwe. Volendo tentare un’ardita comparazione con il nostro sistema bancario, il suddetto Board e la sua funzione non è molto diverso da quello di un comitato etico all’interno di una banca che ha la finalità di vigilare affinché l’attività bancaria sia svolta nell’interesse di tutti gli azionisti.
 
L’opinione degli Scholars, diversamente da quanto accade nei comitati, è pero sostanzialmente vincolante ed in alcuni casi può essere più vicina a quanto accade con le società di rating, qualora i Board assumano veste indipendente; in tali casi la loro opinione può condizionare ad esempio la validità di un negozio giuridico, la sottoscrivibilità di uno strumento finanziario da parte di investitori islamici, il corso del titolo oggetto di attenzione o ancor prima la stessa sua ammissione a quotazione nei mercati borsistici dei Paesi nei quali la giurisdizione del Board è riconosciuta.
Questa è la struttura della finanza islamica in estrema sintesi. Ma come si coordina questo sistema finanziario con la finanza convenzionale operante nei Paesi occidentali? Quali sono i problemi di integrazione tra i due sistemi? Qual è l’interesse di un Paese a finanza convenzionale a consentire l’adozione di strumenti Shari’a compliant da parte di banche, società finanziarie o altri investitori? Quali sono i valori di mercato in campo e quali potenzialità ha la finanza islamica? Insomma, quale futuro avrà la finanza islamica nei nostri Paesi?
 
A queste domande per ora è sufficiente rispondere che l’assenza di un quadro regolamentare che consenta alle banche islamiche di interagire con le banche convenzionali esclude queste ultime da un circuito di opportunità sempre più rilevante. Mentre le banche e gli investitori occidentali possono liberamente finanziare le banche, gli operatori islamici o le attività esistenti in quei Paesi, non è possibile il contrario in assenza di un quadro regolamentare che ponga prodotti finanziari convenzionali e prodotti Shari’a compliant sullo stesso piano. In questo senso, le banche convenzionali non sono oggi in grado di sfruttare una opportunità. Una banca italiana che volesse ricevere fondi da una banca islamica si troverebbe in estrema difficoltà e non potrebbe, nella maggior parte dei casi, neanche dar seguito all’operazione. In altre parole, le banche a finanza convenzionale sono tagliate fuori dalla gestione dei fondi provenienti da Paesi islamici. È di tutta evidenza che oggi tra i Paesi a maggior tasso di crescita ci sono proprio i Paesi a religione musulmana. Basti pensare alle economie dei Paesi del Golfo, alla crescita di alcuni Stati del sud est asiatico, alle grandi ricchezze di alcuni Paesi nordafricani quali la Libia, l’Algeria, l’Egitto. Nella finanza islamica vince la prospettiva del progetto, dei project financing, della valutazione preventiva del rischio, della sensibilità imprenditoriale che abbiano il fine di condividere le opportunità.
 
La banca è più impresa e meno intermediario. In questo modo, l’ultima missione del governo italiano in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti penso abbia fugato molti dubbi delle oltre 100 imprese italiane e delle banche presenti. Abbia fatto capire che in quei Paesi esistono grandi professionalità ed una straordinaria concentrazione di ricchezza, le cui classi dirigenti investiranno in un prossimo futuro non solo nei Paesi della cosiddetta Mena Region (la regione geografica che comprende i Paesi a religione musulmana del Middle east e del nord Africa) ma anche in tutti quei Paesi che offriranno la migliore infrastruttura normativa, industriale e commerciale. Ricchezza che sarà investita per dare futuro alle nuove generazioni di quei Paesi pensando all’era post petrolifera. Ma allora per non perdere questa straordinaria opportunità l’Italia dovrà compiere un primo passo concreto fornendo un quadro regolamentare adeguato al sistema bancario, che consenta di legittimare nel nostro ordinamento strumenti finanziari e contratti di finanza islamica, nonché avviando un percorso di partnership industriale e commerciale tra imprese italiane e imprese di quei Paesi tramite una forte azione di sostegno del governo, delle varie associazioni di categoria e degli altri enti preposti. Per il momento però in Italia non vi sono proposte di legge che vadano in questa direzione. In particolare, pare indubbiamente necessaria la modifica e l’integrazione dell’attuale testo unico bancario (Tub), così che questo possa includere la definizione dei prodotti finanziari islamici. Sarebbe altresì necessario favorire l’ingresso di banche islamiche in Italia, sottoponendo le medesime alla normativa regolamentare bancaria italiana seppur adeguata a quelle che sono le caratteristiche precipue della attività finanziaria islamica. Risulta altresì imprescindibile un’attenta valutazione delle problematiche connesse all’accounting, e in particolare la previsione di una separatezza tra i fondi gestiti secondo la Shari’a e quelli gestiti secondo i principi occidentali, e infine la necessità di una normativa di vigilanza adeguata alle problematiche di tale finanza. Auspichiamo che tutto ciò possa essere introdotto in un prossimo futuro. Time is of essence!
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