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Tu chiamalo, se vuoi, “cettolaqualunquismo”

S’avanza un nuovo, devastante fenomeno nel panorama politico italiano – nel quale, come noto, siamo abituati a non farci mancare mai nulla. Ovvero, il “qualunquismo 2.0”. Oppure chiamalo, se vuoi, “cettolaqualunquismo”.
Già, perché questa ulteriore involuzione della nostra autobiografia nazionale, a metà tra politica e costume, la possiamo vedere, schiaffata sul grande schermo (e annunciata da un battage pubblicitario che riprende, per filo e per segno, una strategia di marketing politico-elettorale) dal film di Giulio Manfredonia Qualunquemente, con protagonista il mattatore Antonio Albanese che porta al cinema una delle sue maschere meglio riuscite, quella di Cetto La Qualunque. Rientrato in Italia dopo un lungo periodo di latitanza, il tremendo paramafioso La Qualunque decide di “salire in politica” (espressione che meriterebbe tutta una disamina da parte del Gustavo Zagrebelsky di Sulla lingua del tempo presente o del Gianrico Carofiglio de La manomissione delle parole) di fronte alla minaccia di una sterzata legalitaria che si imporrebbe in caso di elezione a sindaco di Giovanni De Santis.
 
Mai sentito niente di simile? “Qualunquemente” la si pensi di politica, il Cetto di Albanese è un fulminante affresco della mutazione antropologica vissuta da questo nostro Paese, qualcosa di simile, per fare un esempio, a quanto accaduto a Caserta al “signor Aniello Nappi detto Nello”, monarchico e borbonico, emblema della trasformazione anni Ottanta nel racconto dello scrittore Antonio Pascale.
Il terribile Cetto è consustanzialmente uomo di un certo sud (calabrese, come Pietro Guerrera che l’ha inventato insieme ad Albanese), poiché il laboratorio che sforna a ripetizione i tipi à La Qualunque si colloca in quel Mezzogiorno ove Cristo e lo Stato si sono fermati, per le note ragioni storiche, a Eboli (o in Aspromonte, nella fattispecie). Ma non è (solo e tanto) questione di geografia, e lo spettatore settentrionale non deve ritenersi risparmiato dalla graffiante e feroce ironia del film, né abbandonarsi a risate (e queste sono assicurate come se piovesse) innocenti, sentendosi graziato dalla “giusta distanza” chilometrica. Innanzitutto perché, se non ci si sorveglia, ci possiamo ritrovare un Cetto La Qualunque spaparanzato su di noi stile incubo di Füssli (a certe condizioni, infatti, alberga malauguratamente dentro ciascuno di noi, volenti o nolenti, come fosse un Ultracorpo o un Visitor). E, in secondo luogo, perché, mentre gli anticorpi della società civile si indebolivano progressivamente, il cettolaqualunquismo dilagava via via e affondava come la lama nel burro all’interno di una nazione, di suo piuttosto qualunquista e che, non riconoscendosi come comunità, accettava di buon grado di farsi lisciare il pelo – anzi, “u pilu” – dal populismo.
 
La Qualunque, espressione di una sottocultura che si è guadagnata troppo spazio – e continua a conquistarne – rivendica con orgoglio le proprie malefatte e si stupisce (fino quasi – absit iniuria verbis – a indignarsi) quando qualcuno gli si oppone in nome della legalità (questa sconosciuta…). È l’incarnazione – totalmente inconsapevole, ça va sans dire, ché lui ha affari ben più importanti della “cultura” cui pensare – della bontà della teoria del filosofo Ernesto Laclau (compagno di Chantal Mouffe e pigmalione di Slavoj Zˇizˇek). Vale a dire, l’idea che il principio del politico consiste nell’edificazione di un popolo, finendo per coincidere, per sua essenza, con il populismo. Esso è, quindi, sempre e comunque, per banalizzare un po’ (ma non più di tanto), un affare di capi, boss e comandanti. Ne deriva, allora, che Cetto, autoproclamato e prototipico “leader di sinistra, centro, destra, di sopra e di sotto” è la politica di questi nostri tempi, e di questo nostro Mezzogiorno (ma la considerazione, come si diceva poc’anzi, si può tranquillamente estendere a tutto il suolo patrio), balzato senza soluzione di continuità dal premoderno alla postmodernità liquida, e trascinandosi, del precedente, tutti i fardelli e le peggiori eredità. Dal Fronte dell’Uomo qualunque a Cetto La Qualunque sono passati alcuni decenni e si è compiuta la disgregazione dei partiti di massa, a cui può tranquillamente ed efficacemente ovviare quella comunicazione politica i cui dettami sono stati caricaturalmente ripresi dalla campagna promozionale del film, impostata in tutto e per tutto – cartelloni e gazebo – come una sorta di surreale (o, meglio, iperreale) campagna elettorale.
«Basta con la disoccupazione! Basta col carovita! Basta con la giustizia!»: non è forse un perfetto manifesto (anti)politico e “la qualunque” per la contemporaneità italiota? Del resto, chissenefrega del programma (che noia, che barba; che barba, che noia…); nell’epoca della “ragione populista” e del populismo 2.0, è solo questione, al meglio, di leader e, più sovente, di capetti e caporioni difficili da scansare. Soprattutto se si circondano di ragazze “sdraiabilissime”, da dare in pasto all’immaginario dei sudditi (o, più concretamente, agli amici degli amici). Biopolitica da Bar dello sport, dove un tempo il maschio italico si vantava delle proprie conquiste da latin lover, e oggi si accontenta di iscriversi virtualmente al “Partito du Pilu”. Giacché, nel Paese spento e delle passioni tristi, dove i Cetto La Qualunque proliferano come conigli, in tanti, a giudicare dalle (tristissime) cronache pubbliche, potrebbero sottoscrivere il suo slogan «I have no dreams, ma mi piace u pilu!».
 
Cetto La Qualunque è orripilante e mostruoso, un’anima nera, ovviamente priva della tragica grandezza (e problematicità) del Male di un Macbeth. No, qui siamo nei dintorni della più vieta e bieca banalità del male. Un male che si annida, ahinoi, nella famosa pancia del Paese e che nessuna categoria politologica è riuscita – per pudore o per assenza di parametri scientifici e sperimentali – a spiegare adeguatamente. Quelle viscere della nazione cui Cetto, stentoreo e urlante, rivolge l’appello perentorio «Prima voti e poi rifletti». E così, spesso, accade.
Ci vuole, allora, proprio la comicità – anzi la “satira sociale”, come preferisce dire lui stesso – di Antonio Albanese, dirompente e spassosissima, per mostrarcelo senza infingimenti o edulcoranti. Questo film, dunque, s’ha da vedere, per accorgerci magari, prima che sia davvero troppo tardi, che intorno a noi il deserto della politica è cresciuto a dismisura. E che, prima di votare, bisognerebbe riflettere sempre, qualunquemente la si pensi.
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