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Una questione. 150 anni dopo

Dopo il “silenzio assordante” calato per lungo tempo, il Mezzogiorno e la questione meridionale sono tornati d’attualità anche perché rievocati, tra l’altro, dalle celebrazioni del 150esimo dell’Unità d’Italia, dal dibattito sul federalismo e persino dalle ripercussioni dell’irrisolta questione dei rifiuti campani sull’opinione pubblica. Questa “ripresa indotta” di attenzione offre l’occasione per un bilancio
sui sessant’anni di politiche di sviluppo e sui suoi risultati. Il quadro che ne emerge è quello di un sud che non progredisce: nel 1951 produceva il 23,9% del Pil nazionale, nel 2008 la quota è rimasta immutata al 23,7%. In questi 60 anni il sud è cresciuto, quindi, agli stessi ritmi del centro-nord, ma non ha recuperato il gap di sviluppo. Il dato va però letto con cautela. Proprio sulla spinta delle politiche pubbliche per lo sviluppo, le Regioni del Mezzogiorno – al di là degli impatti, spesso non positivi e molto differenti per qualità e intensità – sono state costrette a confrontarsi con attività nuove, come quelle della programmazione per lo
sviluppo e la gestione di funzioni prima demandate
allo Stato centrale. E pur a fronte dell’immobilità del Pil, è vero anche che il tessuto economico e produttivo è cambiato nella sua struttura. Ciò che è maggiormente mutato è il contesto. All’inizio degli anni ‘50, infatti, l’intervento dello Stato, avviato attraverso la Cassa per il Mezzogiorno e la legislazione straordinaria, prendeva le mosse da quell’originario squilibrio che, alla costituzione dello Stato unitario italiano, aveva dato inizio alla “scoperta” della “questione meridionale”.
Nel 1861, l’annessione in blocco dei territori del sud innestava nel nuovo Stato unitario e centralizzato un’area caratterizzata da una forte omogeneità
delle sue condizioni di arretratezza economica e sociale. Ad esclusione della sola
Napoli, all’epoca terza città d’Europa dopo Londra e Parigi, con un articolato sistema sociale, culturale e industriale, il resto del sud era fermo
ad uno stadio di sviluppo precapitalistico. All’indomani della Seconda guerra mondiale, la situazione non appariva troppo diversa da quella preunitaria e, in quelle condizioni di estrema povertà e di cronica assenza di infrastrutture,
la Cassa del Mezzogiorno produsse risultati particolarmente visibili: 18mila km di
nuove strade, 23mila km di acquedotti, 40mila km di reti elettriche, 1.600 scuole e 160 ospedali.
 
Anche in rapporto all’obiettivo della riduzione del divario di sviluppo i risultati furono all’inizio evidenti: nel 1951 il reddito prodotto dagli abitanti del Mezzogiorno era pari al 55% di quelli del centro-nord: nel 1971 aveva toccato
il 62%, da allora mai più raggiunto (nel 2008 il livello è sceso al 59%, lo stesso del 1981). Tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80, con la nascita delle Regioni e l’avvio delle legislazioni speciali per le emergenze anzitutto legate al verificarsi di catastrofi naturali, si è avviato un periodo di progressivo degrado delle politiche per il
Mezzogiorno e la legislazione straordinaria è andata progressivamente a perdere di incisività, sino a concludersi all’inizio degli anni ‘90.
Il Mezzogiorno oggi non è più un’unica area povera e arretrata, bensì una conformazione di territori articolata e differenziata. Ma resta
un’area ancora fortemente dipendente dalla spesa pubblica. In questo diverso scenario, l’originario impianto dell’intervento straordinario, concepito come grande disegno unitario a livello nazionale, tende a smussarsi in una serie di interventi diffusi, sottoposti alle sollecitazioni di una domanda locale filtrata da una complessa filiera istituzionale.
Quest’ultima si articola attraverso i molteplici strati di un wafer istituzionale “alto, lungo e largo” e sempre più complesso, costituito da Regioni, Comunità montane, Enti parco, Comuni, circoscrizioni ed altri ancora, oltre che dai molteplici strumenti della governance dello sviluppo e del territorio, ciascuno con una propria struttura tecnocratica. L’intermediazione della filiera istituzionale, in cui oggi si insinua una forte dose di opportunismo delle classi dirigenti locali, che finalizzano gli strumenti e le risorse all’obiettivo della costruzione del consenso a breve-medio termine, genera il progressivo scollamento dell’offerta della politica dalla domanda reale di sviluppo.
E anche i problemi sono oggi profondamente differenti per dimensione e complessità da quelli gestiti dalla Cassa per il Mezzogiorno. Negli anni ‘50 nel sud si dovevano ancora bonificare le paludi; oggi occorre bonificare le aree industriali dismesse e gestire il ciclo integrato dei rifiuti; negli anni ‘50 si doveva superare l’analfabetismo di quote rilevanti della popolazione: oggi bisogna creare le condizioni di opportunità di lavoro e di carriera per fermare l’esodo definitivo dei giovani laureati, principale componente dei flussi migratori dal sud.
Oggi le imprese meridionali vanno spinte sulla frontiera tecnologica più che dover essere semplicemente “insediate”, come avvenne negli anni ‘50.
Il mancato aggiornamento dell’offerta di intervento pubblico rispetto alla domanda reale ha determinato risultati clamorosamente deludenti in termini di efficacia ed impatto della spesa pubblica ad essa finalizzata. Nel 1996-2008, la spesa per investimenti pubblici nel Mezzogiorno, pur raggiungendo la cifra di 181 miliardi di euro (di cui circa la metà finanziata da fonti aggiuntive, quali Fas e fondi strutturali), non è riuscita a far mutare le condizioni strutturali delle regioni del sud tale da attivare dinamiche endogene di sviluppo.
Il problema, dunque, non è la quantità di risorse destinate allo sviluppo, ma la qualità dei risultati e la loro capacità di dare risposte verificabili e misurabili. Per questo negli indirizzi previsti dal Piano nazionale per il sud prevale il criterio della concentrazione degli interventi su poche priorità decisive per lo sviluppo, identificate in base al loro impatto sulla crescita e alla tempestività dei tempi di realizzazione.
Quanto alla proliferazione dei centri di intermediazione istituzionale delle politiche di sviluppo essa costituisce un positivo elemento di democratizzazione della programmazione degli obiettivi solo se non produce posizioni di “rendita politica”.
Si può pensare dunque che le prove di federalismo, almeno sul piano dell’articolazione burocratico-istituzionale, nel sud siano di fatto già avviate e che vanno però profondamente bonificate? E si può pensare che il federalismo se, allo stesso tempo, serve a responsabilizzare i diversi centri decisionali e se non si traduce in un’operazione di scomposizione contabile-fiscale, sia una delle vie per ottenere risultati concreti anche nello sviluppo del Mezzogiorno?
L’Unità d’Italia passa, dopo 150 anni, per il recupero di un disegno istituzionale che era nella mente di uno degli autori dell’unificazione del Paese e che lo stesso aveva dovuto abbandonare per causa della contingenza politica che imponeva il modello di Stato centralizzato.Probabilmente, Cavour riteneva necessario fare anche questo per fare gli italiani.
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