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Fiori di carta di marzo 2011

Chi è Mario? Si interroga la moglie proprio prima di tirarsi dietro la porta di casa e lasciare il marito. La madre di lui aveva appena telefonato per lasciar detto che Mario era morto, e lei, che aveva già deciso di andarsene, aveva avuto un’improvvisa curiosità.
In realtà, della voglia di Sara di conoscere la storia di Mario poco importa al romanzo e vale soltanto a segnalare che qualcosa resiste tra i due al di là dell’abbandono, come un po’ alla volta sarà chiaro anche ai protagonisti, che alla fine si ritroveranno, dopo aver chiuso qualche conto con il proprio passato e, quindi, con il loro presente. Mario, dunque, era il nonno materno di Pietro, il padre di sua madre, «un uomo a cui il tempo aveva sottratto anche la faccia». Era un reduce dalla guerra di Russia tornato a casa vivo, ma incapace di riprendere a vivere, svuotato: «La testa gli era saltata su una mina». Dopo qualche disperato tentativo di reinserimento nel tran-tran quotidiano, Mario era finito in un ospedale psichiatrico e il mondo, famiglia compresa, si era più o meno dimenticato della sua esistenza fino a quando la morte aveva rimesso in moto il saliscendi della memoria.
Per un verso Pietro bambino lo ricorda come una presenza inquietante, che faceva soprattutto paura: «lo scheletro» lo chiamavano i suoi compagni di scuola e, dalle poche volte che lo aveva visto, riemergeva una «faccia scavata, le guance strappate a morsi da qualcuno, il cranio acquattato sotto, le ossa incastonate. E gli occhi, che sembrava non ci fossero, buio al fondo di due grotte». Poi, anche lo scheletro rivela una storia e da un libro, quasi per caso, viene fuori «la prima foto di Russia» che ritrae «un gruppo di ragazzi». Era «piccola, in bianco e nero, un po’ sporca, consumata», ma sufficiente, nella sua povertà, per evocare la tragedia che aveva travolto i ragazzi «in posa sulla neve». Nella foto sono otto, ma dei «segni fatti a penna» distinguono i morti dai dispersi, sopravvissuto è soltanto lui, Mario. Tornato, senza occhi e senza testa, senza parole, uno scheletro, ma vivo. Ce n’è abbastanza perché il nipote decida di venirne a capo, di conoscere davvero la storia del nonno, che intanto si è raddoppiata in quella di un altro reduce, che non aveva perso la testa, ma «dopo la Russia non rideva più». È Olmo, il nuovo amico, a evocare l’avventura sulle carte geografiche e con le parole, ricordando i morti e le sofferenze, ma anche «le cose belle» di una stagione che aveva coinciso con la sua giovinezza. In quel groviglio di memorie turbanti, ma anche dell’unica vicenda che era stata allora vissuta, viene fuori, un poco alla volta, la presenza di un vero e proprio mistero, di una domanda che solo il padre di Piero ha il coraggio di pronunciare: «Tu lo sai vero tutta la gente che ha ucciso quest’uomo?».
 
Così la storia viene improvvisamente capovolta: la vittima diventa un carnefice e accanto alla pena del ritorno, percorrendo chilometri e chilometri tra neve e ghiaccio, appare lo strazio del popolo invaso, i corpi impiccati dei ragazzi nemici snidati e inseguiti, scoppia, insomma, il furore di una guerra terribile e maledetta, senza pietà.
Le due guerre, degli invasi e degli invasori, dei vincitori e dei vinti, lacerano la memoria, spaccano in due la coscienza, si contraddicono dolorosamente, senza che per Pietro possa esserci pace, fino a quando non decide di tornare lassù, tra le steppe, per rimettere ordine almeno dentro di sé.
Così, se il tragico mistero della guerra si svela terribile e inequivocabile in una serie di morti, caduti «in milioni per liberarsi di noi», dal profondo di Pietro emerge un altro impiccato che ha segnato la sua storia con Sara, e in questo specchiarsi di una morte nell’altra, in questo rifrangersi della coscienza, il giovane cresce e matura, diventando uomo, e la vita, così assurda, imperscrutabile, violenta, rivela in questo bel romanzo di Andrea Bajani che essa acquista senso e significato proprio a partire da una coraggiosa ricerca di giustizia e chiarezza.
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