Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Nella giusta direzione, a piccoli passi

Da qualche tempo è ripreso, vigoroso, il dibattito sulle prospettive della finanza pubblica italiana. Si sentono avanzare le consuete proposte scolastiche per uscire dalla crisi: fare inflazione, fare sviluppo e così aumentare il Pil, aumentare le tasse.
Nessuna di queste soluzioni mi convince mentre probabilmente una combinazione delle stesse finirà per essere inevitabile.
L’inflazione è sicuramente la soluzione più facile: essa però oltre ad essere fortemente contestata dai nostri partner europei e dalla Bce, è anche sommamente ingiusta: colpirebbe le classi medie e quelle più deboli, già incise dagli aumenti della pressione fiscale negli ultimi tempi. Del resto un risveglio dell’inflazione si sta già manifestando negli ultimi tempi ed è probabile che l’eventuale realizzazione del federalismo concorra a dare ad essa una spinta ulteriore.
 
Si parla molto di fare sviluppo. Il governo ha financo promesso misure per aumentare il Pil di 4 punti percentuali. Sarebbe sicuramente il modo più sano e corretto per aiutare il Paese a uscire dalla crisi.
Ma sono molto dubbioso che tale situazione sia praticabile se non si riavvia l’economia mondiale e soprattutto quella europea, e se non si avviano adeguati investimenti. Ma fare investimenti, come ora si chiede a gran voce, comporta disponibilità di denaro: e questo invece oggi manca. Almeno da parte della mano pubblica.
Così si giunge alla terza proposta: quella di aumentare le tasse. Non sono tra coloro che credono che basti abbassare le aliquote per recuperare il sommerso e dunque gettito rendendo così meritevole e indolore l’operazione: chi evade in tutto o in parte oggi, continuerà a prendere il beneficio delle tasse ridotte senza restituire nulla alla collettività. Gli esempi del passato e i numerosi condoni stanno a dimostrarlo. Però un aumento delle tasse per approvvigionare nel breve termine lo Stato del denaro occorrente per gli investimenti, sarebbe, a mio avviso, un errore.
Purtroppo l’aumento avverrà, in modo strisciante, attraverso l’attuazione del federalismo; ma certo non si può né si deve ulteriormente ampliare la base imponibile (anche con la scusa della lotta all’elusione) che costituisce surrettizio aumento del carico fiscale, o, peggio, aumentare le aliquote o introdurre nuove tasse.
 
È questa la ragione per cui, il solo parlare di imposta patrimoniale (ancorché con le migliori intenzioni redistributive) ha suscitato recentemente un coro di reazioni contrarie.
La patrimoniale, che poi finirebbe per essere l’ennesima imposta sugli immobili o sui titoli, esplicherebbe effetti negativi sull’economia e sull’immagine fiscale del Paese che già non brilla: oltre a colpire i pochi soliti noti. Significa allora che nessuno degli strumenti tradizionalmente ipotizzabili può funzionare?
Io credo che, come sempre, la soluzione stia nei piccoli passi purché siano molteplici e tutti nella giusta direzione.
Si tratta dunque di riprendere le tre soluzioni e combinarle tra loro in modo di pesarne adeguatamente gli effetti.
L’inflazione va combattuta ma non potrà esserlo oltre un certo limite e con norme che abbiano effetti collaterali: la ripresa dell’economia mondiale, soprattutto per effetto dei Paesi emergenti (da ultimo anche africani), dovrà essere governata con misure illuminate e non controproducenti: un certo grado di inflazione dovrà essere sopportato.
Lo sviluppo del Paese dovrà essere perseguito attraverso la limitazione dei costi improduttivi e la finalizzazione degli investimenti verso i settori più produttivi: la ricerca specie tecnologica (la banda larga e l’informatica oltre che il settore energetico), l’università, alcuni (pochi) progetti di grande importanza (tra i quali personalmente non includerei il ponte sullo stretto di Messina).
L’erogazione di soldi pubblici dovrebbe fare da volano e indirizzare gli investimenti verso obiettivi prefissati e misurabili.
È evidente che questo significa una politica industriale forte e chiara e non sottoposta ai reciproci ricatti delle diverse forze politiche ed economiche.
Un’utopia forse, verso la quale peraltro l’Italia dovrà prima o poi avviarsi. Per trovare i soldi necessari io credo poco nel volontarismo e nello spontaneismo di facciata. Lo strumento principe, in uno Stato democratico, di concorso alla cosa pubblica e di redistribuzione del reddito è costituito dal sistema fiscale.
Occorre in primo luogo le tasse farle pagare a tutti attraverso un sistema articolato e ragionevole di controlli: su questa via si stanno già muovendo passi importanti. Occorre poi articolare il sistema fiscale, senza stravolgerlo, nella direzione di una maggiore equità.
Non occorre riformare e sostituire tutto: prima che l’amministrazione si adegui a una riforma epocale occorreranno anni e saranno inevitabili ulteriori condoni.
Basta ridisegnare la curva delle aliquote Irpef applicandole ad una base che tramite il recupero dell’evasione faccia corrispondere il Paese reale al Paese che appare dalle dichiarazioni.
 
Alleggerendo il carico sul ceto produttivo, e sui contribuenti più disagiati e le famiglie numerose; magari recuperando gettito a carico dei redditi di capitale la cui tassazione (ancorché con ritenuta secca) deve essere ricondotta a quella media dell’Irpef. E basta aumentare opportunamente alcune imposte sui consumi (in primo luogo l’Iva). Il combinato disposto di tutti questi misurati interventi dovrebbe fornire le risorse per riavviare lo sviluppo indirizzandolo verso obiettivi ad alto effetto moltiplicatore e opportunamente selezionati. La molteplicità degli interventi dovrebbe assicurare la loro sopportabilità e la loro efficacia complessiva. Una moderna Tobin Tax introdotta dall’Ue e quindi nel resto del mondo aprirebbe una nuova pagina nelle politiche di welfare e di sviluppo dei Paesi poveri. Non voglio però trascurare un ultimo strumento che sta funzionando magnificamente nel nostro Paese.
Mi riferisco all’economia del terzo settore, del volontariato, delle Onlus (di cui rivendico orgogliosamente l’invenzione) cioè a tutti quegli strumenti che convogliano la grande energia di migliaia di giovani di buoni sentimenti verso attività economiche e commerciali finalizzate a scopi di utilità sociale.
Oltre a quanto è stato fatto (e non basta) in materia fiscale, occorrerebbe che il legislatore favorisse in tutti i modi il lavoro prestato per finalità sociali, magari adottando forme di tassazione semplificate o forfettarie e liberando tali attività dagli innumerevoli oneri e adempimenti burocratici.
Si sta assistendo in giro per il mondo al diffondersi della dottrina che va sotto il nome di social impact: i ricchi del mondo hanno superato le fasi del volontariato e della filantropia (spesso originata da ragioni fiscali) e si cimentano ora con grandi progetti multinazionali ad impatto sociale diretti appunto a sostenere le iniziative degli Stati ancora carenti sul punto.
Perché i ricchi italiani non si uniscono ai ricchi del mondo per dare un impulso nobile alla ripresa dell’Italia?
×

Iscriviti alla newsletter