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Schermaglie di marzo 2011

«Se sei costretto a spegnere Internet nel tuo Paese è segno che il tuo regime non è più legittimo e anche che sei in un brutto guaio». La paradossale affermazione apriva un recente articolo del prestigioso mensile americano Dissent, dedicato alla crisi egiziana. La battuta allude alla decisione del regime di Mubarak di bloccare Facebook ed altri social network su tutto il territorio nazionale, per evitare che servissero da megafoni dell’opposizione. Ciò che in apparenza sembra il trionfo della censura, in realtà ne verifica la crisi e le profonde trasformazioni a cui questa pratica dovrà sottoporsi. Viene messa in discussione la capacità di un sistema di potere o di una fonte di produzione di notizie di possedere il monopolio sull’informazione. Con i media tradizionali, stampa e tv, non si censura solo eliminando ma anche selezionando le notizie da diffondere. Alleato del potere è il discorso ufficiale. La sparizione di Facebook dai computer egiziani, viceversa, non è sostituibile con una forma alternativa di propaganda. In passato, durante un putsch o una rivolta, si potevano eliminare i fatti senza che i giornali o le trasmissioni tv sparissero. Esisteva un centro diffusore in grado di stabilire cosa omettere o dire. La morfologia di Internet e dei social network rende quest’operazione più difficile. Chiunque abbia un profilo può rendersi testimone, quindi snodo in una rete di diffusione senza più centri gerarchici. Non che le gerarchie siano per questo eliminate: il blogger dissidente o il giornalista famoso avrà sicuramente più lettori del comune cittadino, ma la potenzialità di trasmettere notizie, per quanto frammentarie e non verificabili, è nelle mani della collettività.
La censura si trova attualmente costretta ad operare non sul terreno della notizia, ma sul medium in sé, provocando un ulteriore effetto di sconcerto nei cittadini, anche in quelli che non abbiano velleità di rivolta.
Chiudendo Facebook, persino la casalinga o lo studente senza alcuna formazione politica si rendono conto che nel loro Paese sta succedendo qualcosa di grave.
La censura può imporre il silenzio totale, ma non è più in grado di sostituirsi al discorso.
Il tentativo più sottile deve essere diretto al filtraggio, non all’eliminazione del mezzo. Un esempio è fornito dall’azione del governo cinese, che proprio nei giorni della rivolta al Cairo, per eliminare ogni riferimento, ha bloccato la parola “Egitto” su Google. Ogni ricerca che riguardasse questo termine finiva in un inesorabile nulla. Il modus operandi è certo più sottile, ma anche così l’effetto dell’eliminazione di un intero argomento ha un effetto straniante e coinvolge un numero di persone più elevato rispetto agli obiettivi del censore.
A essere spiazzati non saranno solo i potenziali dissidenti alla ricerca di notizie sulla rivolta, ma anche l’appassionato archeologo dilettante o il turista che progetta un viaggio a Sharm El Sheik.
Il modello descrittivo del Panopticon di Foucault viene sempre più sostituito da un complesso reticolo di informazioni in cui produttore e fruitore del sapere vengono frequentemente a coincidere.
 
Indice delle cose notevoli
Un articolo di Dissent Magazine nel quale si analizza la situazione egiziana;
Un saggio essenziale per capire i fondamenti sociali del controllo: Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 2005;
Un commento sulla censura cinese dal portale Mondocina;
Un interessante excursus sulle forme della censura letteraria, che però ignora completamente la rete: Massimiliano Morini, Romana Zacchi, a cura di, Forme della censura, Napoli, Liguori, 2006
Un libro dedicato alla costruzione dell’attuale Stato egiziano: Massimo Campanini, Storia dell’Egitto contemporaneo. Dalla rinascita ottocentesca a Mubarak, Edizioni Lavoro, Roma, 2005
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