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La dittatura del petrolio

Il rapporto tra petrolio e democrazia potrebbe essere così sintetizzato: i grandi consumatori di petrolio sono, in maggioranza, i Paesi democratici; i grandi produttori di petrolio sono, in massima parte, i Paesi retti da regimi autoritari. Incrociando questi due dati emerge il carattere specifico della risorsa-petrolio: sicurezza. Nonostante la presenza di altre fonti energetiche, rinnovabili o non, il petrolio è ancora il fattore centrale della vita economica e sociale. Dico “vita” e non solo industria perché esso entra nella maggior parte degli aspetti della vita quotidiana di tutti, dai trasporti all’elettricità. La tabella conferma quanto detto all’inizio anche se tra i Paesi produttori sono entrati, a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso, alcuni Paesi democratici, quali il Regno Unito e la Norvegia, le cui riserve sono però in declino, mentre si può confidare che grandi produttori come Russia, Venezuela, Indonesia e Iraq possano in tempi brevi conseguire uno status di democrazia certa. Ma lo squilibrio è evidente se si passa ad esaminare la lista dei principali consumatori che include anche tutti gli altri Paesi europei non indicati.
 
È inutile nascondere il fatto che la necessità di importare petrolio ha sempre indotto i grandi Paesi consumatori democratici a sorvolare sulla natura del regime politico dei produttori, sia dopo la Prima che la Seconda guerra mondiale. Dopo il conflitto 1939-1945 si è aggiunto, almeno fino alla fine degli anni ‘80, il confronto ideologico. La Guerra fredda, infatti, fu nella sostanza una gara tra la capacità produttiva del sistema “occidentale” e quella del sistema ad economia pianificata.
Dopo la prima crisi petrolifera del 1973-74, il tasso di indifferenza verso i regimi interni si accrebbe, in proporzione all’aumentato senso di vulnerabilità. Rapidamente, dopo quella prima crisi, prese a svilupparsi un fenomeno nuovo: l’afflusso di petrodollari nel circuito finanziario occidentale, anche in questo caso per nulla ostacolato ma piuttosto favorito perché dava sollievo alle bilance dei pagamenti che in diversi Paesi avevano risentito del forte e rapido aumento della bolletta petrolifera. Anche in questo caso, benché proprio nello stesso periodo fosse sempre più sollevato, nei confronti dell’Unione Sovietica, soprattutto da parte degli Usa, il tema dei diritti umani, ci si è ben guardati di assumere lo stesso atteggiamento nei confronti dei regimi autoritari dei Paesi produttori di petrolio.
 
Paesi che, a loro volta, si approvvigionavano largamente in occidente di impianti e soprattutto di armi. L’ultima fase di questo rapporto, dopo la fine della Guerra fredda e il consolidarsi della globalizzazione, è rappresentata dal peso crescente dei cosiddetti fondi sovrani, cioè i surplus finanziari dei produttori di petrolio utilizzati per investimenti in imprese occidentali o nel mercato finanziario, la cui titolarità formale è degli Stati, ma la gestione viene esercitata da una singola potente famiglia. Se si escludono Norvegia, Cina, Singapore, Corea del Sud e Russia, tutti questi fondi appartengono a Paesi arabi e all’Iran per un valore complessivo di circa 1600 miliardi di dollari. La fase di turbolenza politica iniziata a gennaio, dal Marocco al Golfo, lungi dal potere essere definita, al momento, un irresistibile vento di democrazia, non cambierà comunque i termini della questione: il petrolio è irrinunciabile. Lo sanno i consumatori e lo sanno i produttori, quale che sia il loro regime politico. Se si avvierà, almeno in alcuni di questi, un processo di democratizzazione, si tradurrà in una maggiore articolazione del loro sistema economico per cui essi aumenteranno il consumo del proprio petrolio.


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