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La previdenza in tempo di crisi

Nelle tecniche di comunicazione, gli studiosi affermano che ci siano due modi per affrontare una questione, l’una opposta all’altra: la tecnica della “ridondanza” se si vuole innalzare di rango anche una notizia di poco conto e la tecnica della “spirale del silenzio” se si vuole eliminare anche una notizia importante; non se ne parla, quindi non esiste.
Nel nostro Paese, poi, la situazione è ancora peggiore perché, come affermano Roger Abravanel e Luca D’Agnese, nel saggio Le regole, i media in Italia sono di scarsa qualità, sia perché “gli italiani… sono poco interessati all’informazione e all’approfondimento”, sia perché “… la loro partigianeria a priori li pone nella condizione di un rifiuto pilatesco nel prendere posizione sui temi più scottanti”.
 
Le questioni relative alla previdenza in generale e a quella complementare, in particolare, rientrano fra le “vittime” di questo sistema di comunicazione, nonostante la crisi economica e il relativo mercato del lavoro abbiano aggravato la situazione.
L’Italia vive oggi in una condizione di “dislessia mentale”; teorizziamo, da un lato, la situazione di endemica flessibilità e precariato dei giovani come deterministica condizione imposta dalla “modernità”; dall’altro “ci meravigliamo” che la stessa condizione produca, in prospettiva, una situazione disperata.
Non è mai superfluo ricordare che l’abbassamento della pensione (revisione del sistema di calcolo) ha spinto il legislatore e le parti sociali a rilanciare, con forza, la previdenza complementare per far fronte alla riduzione dei rendimenti e delle conseguenti drammatiche prospettive dei lavoratori nel momento in cui raggiungono la pensione.
Anche l’utilizzazione del Tfr per finanziare “il secondo pilastro” trae la sua ratio nell’esigenza di reperire nuove risorse tenendo conto da un lato che lo Stato non era in grado di farsene carico (allora si sarebbe lasciata la previdenza com’era prima) e dall’altro che le risorse messe a disposizione per la previdenza integrativa risultavano troppo basse.
 
Purtroppo, dopo l’impennata di adesioni causata nel 2007 dall’operazione di conferimento del Tfr ai fondi pensione, la situazione presenta oggi una preoccupante staticità e non s’intravvedono ragioni perché, nel prossimo immediato futuro, la situazione possa evolversi per il meglio, cioè verso una decisa espansione.
I piani di previdenza complementare, realizzati con i diversi strumenti di settore (non solo, quindi, i fondi negoziali), secondo i dati recenti della Covip, coinvolgono una popolazione di soli 5 milioni, circa, di soggetti, ben al di sotto delle aspettative coltivate nel recente passato e, soprattutto, ben al di sotto delle necessità sociali che la situazione imporrebbe.
La frammentarietà e la precarietà del mercato del lavoro non aiutano a smuovere la situazione e invertire la tendenza. I giovani che hanno retribuzioni o “pseudo retribuzioni” nemmeno sufficienti per “sbancare il lunario” non si preoccupano certo di investire una parte della loro retribuzione in previdenza complementare.
Si pone l’esigenza, allora, di riprendere un dibattito sulla questione previdenziale, quasi dimenticata, per cercare d’individuare le debolezze del sistema e, soprattutto, per indicarne le possibili e praticabili soluzioni.
 
Ad ognuno il suo compito: alle parti sociali un rinnovato e possibilmente unitario impegno nella direzione di contribuire a ridisegnare più certezze e più sostanza nel mercato del lavoro, più coerenza negli sforzi di informazione e sensibilizzazione dei lavoratori, più coraggio nelle piattaforme per il rinnovo dei contratti, facendo diventare la previdenza il vero nucleo centrale della contrattazione.
Al legislatore, in una responsabile e impegnata socialità, un’attenzione alla “giungla del mercato del lavoro” finalizzata a favorire maggiori certezze e, quindi, una diffusione generalizzata della previdenza complementare, eventualmente con strumenti di garanzia nei confronti dei fondi pensione (sottrarre la pensione integrativa alle montagne russe della speculazione finanziaria con una legislazione vicina a quella del 1982, relativa al Tfr), valutando anche la possibilità di un’eventuale obbligatorietà (alla stregua della Rc auto).
 
Un ultimo aspetto, apparentemente marginale, impone una riflessione: il numero eccessivo dei fondi previdenziali. Solo considerando i fondi chiusi, se ne contano ben 24. L’accordo interconfederale di indirizzo sulla previdenza complementare, sottoscritto il 16 settembre 2010 fra le Organizzazioni dell’artigianato e Cgil, Cisl e Uil, rappresenta – come si legge testualmente – un primo approccio “utile a favorire un processo di accorpamento dei fondi di natura negoziale che possa realizzare economie di scala, maggiore efficienza, capacità di servizio agli associati e migliori prestazioni”. Non sempre, piccolo è bello…
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