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Mare nostrum, il ruolo dell’islam

I recenti avvenimenti nei Paesi arabi hanno colto il mondo occidentale completamente impreparato. La nostra cultura, i cui valori fondamentali sono la democrazia, la difesa dei diritti umani, la giustizia sociale, la libertà di opinione e di religione, è caduta in contraddizione proprio nel rapporto con i governanti di quei Paesi i cui cittadini ora si ribellano. Esprimendo la speranza che, finalmente, quelle popolazioni possano essere libere, l’occidente, oggi, si giustifica ricorrendo alla real politik, alla necessità di avere contatti anche con i despoti perché con essi erano necessari rapporti commerciali e diplomatici e perché quegli autocrati erano una garanzia contro il nostro nemico più temuto: il fondamentalismo islamico. E la paura più grande, ora che i rais sono caduti o stanno cadendo, è che forme di estremismo religioso possano prendere il controllo.
Non è un’analisi politica quella che si vuole offrire di questi avvenimenti, ma “antropologica” e, dunque, culturale.
 
Il rapporto della cultura occidentale con “l’oriente”, inteso come l’area geografica che ospita i Paesi arabo-musulmani dal Nord Africa al Golfo, è sempre stato, per così dire, “particolare”. Come fa notare l’intellettuale palestinese Edward Said nel suo ormai classico Orientalismo, l’oriente è uno dei più ricorrenti e radicati simboli del “diverso”. Le caratteristiche di tale diversità sono principalmente l’arcaicità e l’arretratezza delle popolazioni della regione, che, come scriveva Lord Balfour alla fine del 1800, sono incapaci di qualsiasi forma di autogoverno. “Le fasi storiche che quei popoli hanno attraversato” continua il politico inglese, “sono trascorse invariabilmente nel segno del dispotismo, di forme di governo autoritarie… Questo è un fatto; non è una questione di superiorità o di inferiorità… È una buona cosa – conclude Balfour – per queste grandi nazioni, perché riconosco la loro grandezza, che tale forma assolutistica di governo sia da noi amministrata? Ebbene, io ritengo di sì”.
 
Certo le affermazioni di Balfour coincidevano con l’inizio del colonialismo britannico in Egitto e più di un secolo è trascorso da allora, eppure l’atteggiamento nei confronti dei Paesi arabo-musulmani non sembra essere mutato di molto. Oggi, ripudiato il colonialismo, con quelle forme assolutistiche di governo si è stretta un’alleanza di convenienza che ha comunque comportato un non troppo velato paternalismo e un certo controllo dal punto di vista politico.
La diversità orientale si manifesta, inoltre e soprattutto, con l’islam, vittima di un pregiudizio storico e considerato, nonostante la condanna condivisa da tutte le democrazie della discriminazione su basi religiose, come “nemico” del cristianesimo e religione dalle caratteristiche violente. Quanto la “teoria” di apertura e rispetto verso i musulmani sia una cosa, e la “pratica” di un atteggiamento ostile nei loro confronti sia un’altra, è evidente nel recente studio del sociologo Stefano Allievi, La guerra delle moschee, che analizza come l’avversione popolare e istituzionale alla costruzione di luoghi di culto islamici nasconda, in effetti, l’ostilità verso un “diverso” (il musulmano) che sempre più “invade” la nostra cultura.
 
Dell’islam si mettono in rilievo soprattutto gli aspetti negativi e per noi incomprensibili, quali la lapidazione delle adultere, la tragica situazione femminile, la violenza anti-cristiana e anti-occidentale. È vero, l’islam è anche questo. È innegabile l’esistenza di regimi teocratici come l’Iran, come è innegabile la deriva fondamentalista di parte dell’islam. Ma non è solo questo.
Nell’analizzare ciò che sta accadendo oggi nei Paesi di cultura musulmana, bisognerebbe forse mettere in evidenza un aspetto dell’islam di cui poco si parla. Maometto criticava nei mercanti della Mecca sia il paganesimo, sia la perdita dei valori di solidarietà gli uni verso gli altri a favore dell’arricchimento personale. Il suo messaggio, dunque, non aveva solo implicazioni religiose, ma era altresì animato da un senso di giustizia sociale verso i più deboli.
 
È dunque possibile che le attuali rivolte nei Paesi arabi derivino da un valore proprio della cultura islamica. Insieme a questo aspetto “tradizionale” non va certamente sottovalutato il contributo di Internet, dei social network e della diffusione ormai globale dell’informazione. Un altro aspetto fondamentale è la giovanissima età media della popolazione “ribelle”. Il cambiamento in atto che, come molti commentatori occidentali hanno osservato, non ha assunto caratteristiche anti-americane o anti-israeliane come in passato, sembra derivare, dunque, da una trasformazione culturale di quei Paesi, che stanno integrando alcuni valori tradizionali con aspetti della modernità. Tutte le culture cambiano, sia per motivi “interni”, sia in seguito ai contatti con altre culture. E questo probabilmente accade nei Paesi in oggetto. Da una parte esiste la “deriva generazionale”, cioè quel meccanismo per cui la “tradizione” muta o si riadatta alle nuove fasi storiche con il passare delle generazioni; dall’altra vi è l’introduzione di modelli culturali esterni ma “utili” alla propria cultura.
 
Anche l’occidente è cambiato nei secoli, eppure oggi sembra trovarsi in una fase di stallo, diviso tra antichi pregiudizi e valori democratici. I Paesi arabi, intanto, chiedono un intervento che non sia più militare, come troppe volte è accaduto, ma umanitario, per risolvere insieme il problema delle migliaia di profughi che cercano asilo in Tunisia e che verosimilmente lo cercheranno anche da noi.
Se non risponderemo presto a questa richiesta, lo spettro dell’integralismo islamico si farà più reale. Perché non dobbiamo dimenticare che molti gruppi fondamentalisti sono nati come organizzazioni dedite all’aiuto dei più deboli in Paesi dove la carenza di giustizia sociale era sempre più insostenibile.


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