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Mediterraneo o ‘mare morto’?

Il mondo guarda con comprensibile preoccupazione a quanto accade nel Nord Africa e al plausibile effetto domino che potrebbe travolgere anche i regimi degli Emirati del Golfo, l’Arabia Saudita e lo stesso Iran. Questi Paesi non solo siedono su oltre la metà del petrolio disponibile sul pianeta, ma controllano anche gli stretti di Hormuz e di Suez, attraverso i quali la linfa vitale dell’occidente, e non solo, transita trasportata dalle super-petroliere. In questa fase rivoluzionaria e confusa è ancora impossibile capire chi sostituirà i regimi oggi alla guida di nazioni dalle quali abbiamo da sempre comprato energia assieme ai nostri alleati europei ed agli Usa. Con chi dovremo trattare in futuro l’acquisto del petrolio e del gas che ci servono? Chi sarà il nostro prossimo interlocutore libico, arabo o algerino? La posta in gioco è drammaticamente alta e l’incertezza massima: nella peggiore delle ipotesi i regimi illiberali potrebbero essere rimpiazzati da altre forme di dittatura, da altri assolutismi non necessariamente vicini all’occidente e magari meno disponibili a trattare con noi in termini puramente di mercato.
 
La storia ci insegna che non sempre una rivoluzione porta all’instaurazione di governi più liberali e democratici: la cacciata dello scià di Persia ha visto la sua sostituzione con una cupa teocrazia liberticida, nemica dell’occidente, ma anche del suo stesso popolo, come i moti di Teheran stanno nuovamente a dimostrare. Senza fare esagerata fantapolitica, uno degli scenari potrebbe vedere analoghi sviluppi non solo nel Maghreb ma anche nella fascia di grandi e piccoli Emirati produttori di petrolio allineati lungo le coste del Golfo Persico.
 
Mentre scriviamo giungono frammentarie notizie di disordini in Bahrein e di manifestazioni anti-governative annunciate a Riyad e il timore di vedere quelle monarchie sostituite da nuovi governi di ispirazione fondamentalista è più che giustificato. Se questo dovesse accadere, l’approvvigionamento di energia si trasformerebbe in un problema complesso, tale da rendere plausibile anche l’intervento militare a salvaguardia di una risorsa così indispensabile alla vita dei Paesi avanzati e delle economie in via di sviluppo. Resta ovviamente la speranza che questa fosca previsione non si realizzi in quanto il petrolio è per quei Paesi pressoché l’unica fonte di sostentamento. E non è solo una questione di petrolio: in Arabia Saudita (primo fornitore di petrolio degli Usa) gli americani mantengono una imponente struttura logistica militare volta al supporto di una potente flotta di superficie e sottomarina nel Golfo Persico, alla gestione di basi aeree da cui decollano e atterrano bombardieri e cargo, alla operatività di quasi 200mila uomini schierati tra Afghanistan e Iraq e che transitano e si approvvigionano continuamente nel territorio saudita. Dunque la temuta crescita del prezzo al barile ancora una volta non è un problema di disponibilità della materia prima secondo la teoria del “picco del petrolio” (oggi stimato nel 2035), ma di instabilità e volatilità politica dei Paesi dove i giacimenti si trovano. Per dirla con una metafora, se i giacimenti fossero altrove l’approvvigionamento di petrolio non costituirebbe motivo di angoscia: se i pozzi fossero tutti tra Norvegia, Danimarca o Svizzera saremmo forse tutti più sereni. Ma non è così: solo l’Eni, il primo produttore internazionale di idrocarburi, dal Nord Africa ha ricavato nel 2010 quasi un milione di barili al giorno tra gas e petrolio, dei quali quasi 300mila dalla sola Libia, ovvero il 23% del petrolio che consumiamo a casa nostra. Nel canale di Suez passa il petrolio che importiamo dall’Iraq (10% del nostro fabbisogno), quello che arriva dall’Iran (12%) e dall’Arabia Saudita (il 5%). In queste condizioni guardiamo al futuro con preoccupazione mentre il prezzo al barile lievita oltre i 105 dollari (solo nel 1998 eravamo a 10/12 dollari al barile), minacciando scenari da “austerity” simili a quelle imposteci dall’Opec nel ’73. La nostra posizione energetica è grave ma non dissimile a quella dei nostri alleati occidentali, che sono più o meno nelle nostre stesse condizioni. Se dovesse crollare l’Arabia Saudita e se la guida del Paese passasse nelle mani di una controparte inaffidabile (gli integralisti, i fondamentalisti) potremmo trovarci di fronte alla terza guerra del petrolio dopo quelle del ’90 e del 2003.
 
Il problema dell’approvvigionamento di energia tocca tutti, nazioni, governi e molto direttamente ognuno di noi, che ogni mattina giriamo la chiavetta della macchina aspettandoci che si accenda e ci porti al lavoro, ma il problema del trasporto e traffico dello stesso è ugualmente enorme: i pirati somali già prima delle rivoluzioni in Nord Africa avevano contribuito a far salire il prezzo al barile, causa i maggiori costi assicurativi per gli armatori, ma ora potremmo saltare a cifre ben più alte, nella non felice prospettiva di finire per trasformare il Mediterraneo in un lago chiuso: con Suez in mano a nemici dell’occidente e magari un Marocco integralista a sbarrare Gibilterra, ecco che il cuore dei traffici petroliferi del mondo diventerebbe come il Mar Morto, un lago chiuso, morto davvero commercialmente ed economicamente. Se Suez, Gibilterra e Aden sono regioni da sempre travagliate da guerre grandi e piccole, non altrettanto si può dire oggi di Panama, una arteria altrettanto vitale per l’economia occidentale ma la cui chiusura non porterebbe a conseguenze così gravi come la blindatura e “secondarizzazione” del Mediterraneo. Ammesso che una chiusura di Panama sia ipotizzabile: la vicinanza di un “guardiano” pesante come gli Stati Uniti rende questa congettura non realistica. Dobbiamo mettere in evidenza, aggiungendo una riflessione, che Panama è tra due oceani aperti, di cui uno ha come protagonista l’Apec (ovvero Asia, Cina e Stati Uniti) attiva nel fitto scambio commerciale ma anche culturale e ideologico tra Atlantico e Pacifico, mentre il nostro antico Mediterraneo, culla della civiltà, è sempre più chiuso: forse la “civiltà globale” si è trasferita dall’altra parte del globo.


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