Un’innovazione si verifica sempre quando qualche nuova prassi viene adottata in modo estensivo o significativo nella società o in qualche gruppo sociale. Non è mai l’invenzione di qualcosa che poi non trova applicazione.
È in questo modo che Joseph Schumpeter utilizzava il termine. E tuttavia va detto che lo stesso Schumpeter quasi distrusse questo concetto al suo nascere, affermando che ogni innovazione deve originare da una scoperta di scienziati o navigatori – comunque persone estranee al business –; e che tutti i progetti innovativi si concretizzano perché i finanziatori hanno la prodigiosa capacità di identificare i progetti che avranno successo e rifiutare quelli che falliranno. E invece gli studi hanno evidenziato che la gran parte del cambiamento economico è il risultato di innovazioni, grandi e piccole, provenienti dall’interno del settore commerciale. La pratica medica è un esempio sorprendente. E poi, come molti imprenditori e professionisti sanno bene, molte nuove idee non sono sviluppate e molti prodotti di nuova concezione non hanno impatto innovativo sull’industria.
È un paradosso che nel mondo ci sia tanto interesse per l’innovazione, visto che i tentativi di innovazione hanno un così alto tasso di fallimento. Sembra proprio che noi sentiamo che l’innovazione sia importante e degna di ulteriore sostegno.
L’innovazione è importante anche nella prospettiva di una teoria molto convenzionale della struttura e del funzionamento dell’economia. Il comparto dei beni capitali è dove si concentra il lavoro, come avevano supposto i teorici del capitale della scuola austriaca e svedese; il comparto dei beni di consumo invece fa un grande uso di capitale e poco di forza lavoro. Guardando alle ondate di innovazione che conosciamo, come quella della seconda metà degli anni Novanta, vediamo che esse realizzano grandi risultati nel modo in cui il capitale è utilizzato per realizzare prodotti di consumo. Ciò spinge in basso il prezzo dei beni di consumo – in altre parole, aumenta il prezzo reale ottenibile dai produttori di beni capitali. In questo modo l’attività di investimento si intensifica. Crescono anche i salari e la quota di lavoro. Gli economisti di Washington stanno alacremente cercando il rendimento originato da quel boom. Per me si tratta di un buon fatto, anche se bisogna aggiungere che l’economia è un affare complicato. Un aumento dell’innovazione può prendere una direzione più inconsueta e assai meno positiva: può ridurre i costi di produzione di alcuni beni capitali, che è ciò che fece l’Intel negli anni Novanta. All’inizio, questo si può tradurre in un aumento dei posti di lavoro in quella specifica branca; ma continui avanzamenti alla fine possono ridurre il prezzo del bene finale, e quindi dei posti di lavoro.
L’innovazione è assai più importante secondo il mio punto di vista, che è radicalmente differente da quello comune, su ciò che deve caratterizzare una buona economia. Una sana economia – anche quella, non così brillante, degli Stati Uniti oggi – si occupa di creare e applicare nuove idee: gli operatori economici descritti da Hume si occupano di immaginare nuove idee e varianti, gli imprenditori alla Hayek si applicano su prodotti che le inglobino, sperando che i consumatori o i manager li adottino. I tecnici alla Bacon sperimentano sistemi di produzione per questi nuovi prodotti. I manager alla Nelson-Phelps valutano il potenziale che essi possono sprigionare una volta giunti sul mercato. E poi ci sono i consumatori descritti da Bhide, disposti all’ebbrezza di portare a casa l’ultima novità. Questo tipo di economia è caratterizzato dall’esercizio e l’espressione della loro creatività, curiosità, disponibilità a fare nuove cose, gusti e personalità. È ovvio che laddove mancano istituzioni economiche in grado di mettere in circolo e stimolare l’innovazione, non vi può essere una sana economia.
Potreste a questo punto chiedervi perché il governo italiano, con tante buone cause da sponsorizzare, decida di puntare proprio sulla “buona economia” per dare sostegno all’innovazione. La mia risposta è che senza una tale “buona economia”, gli operatori non possono avere la prospettiva di una buona qualità della vita, e per questo la gente deve essere stimolata da nuovi sviluppi, mettersi alla prova con nuovi problemi, coinvolta in nuove sfide, per realizzare la propria crescita personale in questo processo ed avere la possibilità (che è tutto ciò che ognuno di noi chiede) di fare la differenza, di raggiungere una meta. Nelle settimane scorse nei Paesi arabi si assiste all’esplosione proprio di queste istanze.
Come sostengo dal 2006, un Paese a reddito elevato non rende giustizia al potenziale di autorealizzazione, di sfida, di inclusione della sua gente se non esamina il proprio patrimonio di istituzioni, attitudini e credenze al fine di stimolare questo dinamismo.
Forse ci si chiede se vi sia una vera connessione tra l’inerente innovatività dell’economia – il suo dinamismo – la soddisfazione umana e il senso di realizzazione. Per molto tempo mi sono applicato nel tentativo di capire le differenze nel grado di attaccamento e di soddisfazione sul lavoro tra i vari Paesi ad alto reddito. Per farla breve: secondo i dati delle nazioni del G7 negli anni Novanta, il Canada era al primo posto, seguito dagli Stati Uniti e dal Regno Unito, con il Giappone al quarto posto. La Francia era al fondo della classifica, preceduta dalla Germania. L’Italia era, in entrambi i casi, in posizione mediana. Secondo i dati dell’anno 2000, che non includono le statistiche sull’attaccamento al lavoro, la soddisfazione sul lavoro era al massimo in Gran Bretagna, seguita dagli Usa, poi da Germania e Francia, con l’Italia scivolata all’ultimo posto. Questi risultati sono in linea con la mia tesi che laddove (nei Paesi ad alto reddito) assistiamo a disaffezione, scarso impegno e soddisfazione sul posto di lavoro, la spiegazione è in genere che vi è scarsa innovazione. L’Italia sembrerebbe la candidata numero uno per un rilancio dell’innovazione, allo stesso modo degli Usa, dove la soddisfazione sul lavoro è crollata nel 2004 per l’accresciuta concorrenza estera e il declino nell’innovazione, che ha spinto molte imprese a privarsi di posti di lavoro creativi, orientati alla crescita di lungo periodo (sviluppo di prodotto, pianificazione strategica, ecc). Ci sono due elementi critici in questa discussione.
Molti economisti neo-schumpeteriani ripetono: sì, è vero, i grandi navigatori dell’era mercantilista e i grandi scienziati dell’illuminismo non ci sono più, ma i governi centrali nazionali hanno la possibilità – e il dovere – di ricreare i fasti dell’era elisabettiana e quelli più recenti della creazione dell’agenzia spaziale Nasa, sponsorizzando progetti di ricerca nelle tecnologie verdi, i combustibili alternativi e la farmaceutica. Uno svantaggio di questo approccio però è che in un’azienda che dipende da contratti governativi per fare la ricerca o in un’agenzia di ricerca direttamente controllata dal governo è improbabile che si impongano idee radicalmente nuove – idee “fuori dal coro”. E le direzioni di ricerca stabilite da questi enti riccamente finanziati possono “spiazzare” altre ipotesi di direzione concorrenti. Forse la vera genialità delle economie moderne emerse nel corso del XIX secolo era la capacità di ottenere innovazione su larga scala, incoraggiando i diversi operatori economici e commerciali a farsi avanti con nuove idee, pretendendo che queste idee sfondassero nel grande pubblico, e non nei circoli governativi, e consentendo ad esse di competere per il sostegno di imprenditori e finanziatori con molte differenti visioni, sì da dare una possibilità di riuscita anche a visioni apparentemente molto innovative. Devo qui aggiungere che mi ha sorpreso vedere questi concetti ribaditi nell’ultima relazione al Congresso sullo Stato dell’Unione, dove Obama ha sostenuto che la “congiuntura Sputnik” nel 1961 – che determinò un flusso di finanziamenti pubblici per la ricerca di base e applicata negli anni Sessanta e oltre – portò con il tempo ad un aumento dell’innovazione nel settore commerciale.
Il secondo elemento da considerare è che cionondimeno gli economisti di Washington sono probabilmente nel giusto quando sostengono che vi saranno sempre meno imprenditori disposti a sobbarcarsi lo sviluppo e, se mai vi riescano, la commercializzazione di nuovi prodotti, visto che le prospettive economiche future sono peggiorate sia per la crisi sia, soprattutto, per i problemi strutturali che hanno afflitto tante economie occidentali. Per questo mi sembra abbia senso che, sia in Italia che negli Usa, il governo dichiari il proprio sostegno all’innovazione e getti sulla bilancia il suo peso per diffonderla nell’economia. Il significato simbolico di questo gesto potrebbe aumentare la fiducia e la propensione al rischio tra gli imprenditori.
Da ormai due anni, vado sostenendo che gli Stati potrebbero dare un forte contributo all’innovazione economica introducendo nel settore finanziario nuovi tipi di banche o strutture simili per finanziare progetti aziendali (inclusa la formazione di start-up) di una qualche dimostrabile innovatività. Sono giunto all’idea che si debbano costituire banche di nuovo tipo. Non è difficile oggi trovare entità finanziarie specializzate per settori (l’immobiliare residenziale, l’agricoltura, le esportazioni, ecc). È un fatto per così dire curioso e disdicevole perché da questi settori giunga una spinta innovativa nulla o molto limitata. Non c’è consapevolezza, tra il grande pubblico e nei legislatori, che il dinamismo economico inerente alla struttura di un’economia nazionale viene in gran parte dalle inclinazioni di persone ordinarie, impegnate a far carriera nel settore privato! Per eliminare questo squilibrio la mia proposta è che ogni governo nazionale crei un gruppo di banche con la missione di finanziare – o investire – in aziende private. Mi piace ricordare che dietro lo straordinario sviluppo della Germania negli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento c’era proprio questo tipo particolare di istituzione finanziaria (la famosa Deutsche Bank), che sostenne con i suoi prestiti la nascente industria elettromeccanica. Continuo ad essere favorevole a questa proposta. Non sarà una panacea. Ma credo che sarebbe un passo nella direzione giusta, con alcuni importanti benefici.
Una visione concreta di questa idea è emersa in una discussione con Leo Tilman. In questo schema, lo Stato dovrebbe fornire un iniziale contributo in conto capitale ad un’impresa con supporto governativo (Gse – government sponsored enterprise) e a questa spetterebbe creare un sistema di nuove “banche” e altri istituti sotto il suo controllo. Ci siamo accorti che questo “sistema” finanziario, l’Innovation finance system, potrebbe essere in parte modellato sulla mission e la struttura del Farm credit system americano. Ogni parte del Sistema sarebbe coinvolta in un network di relazioni finalizzato all’investimento o al finanziamento di imprese in diversi settori e regioni. Questi enti vanno organizzati e capitalizzati in modo congruente al profilo di rischio-rendimento delle categorie di aziende destinatarie degli interventi. Attraverso un braccio operativo dedicato, simile al Federal farm credit banks funding corporation, il nostro Sistema raccoglierà risorse nei mercati globali di capitali a tassi relativamente attrattivi, grazie allo status di impresa governativa e alle economie di scala implicite. Questi fondi sarebbero poi trasferiti agli imprenditori a tassi commisurati ai rischi dei loro progetti, in base alla valutazione di esperti nel campo degli investimenti e dei prestiti. Infine vi sarebbe la “responsabilità congiunta e solidale” dei membri del Sistema, ovvero un fondo di garanzia separato che protegga i detentori del debito. Senza dimenticare un’appropriata supervisione e trasparenza, che possono aiutare decisioni economiche ponderate, una rigorosa gestione del rischio e incentivi equamente distribuiti.
Un’altra versione di quest’idea di base prevede finanziamento che sia reso possibile tanto il finanziamento con mezzi propri quanto il prestito, e la finanza della nuova istituzione potrebbe essere concentrata sugli investimenti più che sui prestiti. Le “banche” in questo caso sarebbero meglio definibili come fondi per l’innovazione.
Sono giunto alla conclusione che è meglio che questi fondi investano in nuove imprese piuttosto che finanziarle con il credito. Un creditore tende a ritenere che non vi siano tassi di interesse abbastanza alti per metterlo al riparo dalle perdite che incontrerebbe se il prestito non venisse restituito. Le imprese start-up saranno ben disponibili ad accogliere un partner se esso acquista quote azionarie, ma non fornisce la stessa quantità di risorse in forma di prestito. Vorrei ora affrontare alcuni dei problemi sollevati da questa proposta. Uno di questi problemi è: cosa giustifica la destinazione di denaro pubblico a questa iniziativa, quando molte altre potrebbero essere lanciate al suo posto? La mia risposta è che, come già detto, il governo è tenuto a fornire ai suoi cittadini, giovani ed anziani, un lavoro dignitoso e l’opportunità di realizzare i propri talenti e scoprire le proprie capacità – e di avere questi beni primari a disposizione nel proprio Paese piuttosto che dover andare all’estero per goderne.
Un altro problema è: è questo il momento giusto perché i governi spendano di più, o non è forse vero il contrario? La mia risposta è che la maggior parte degli esborsi annui di questa nuova iniziativa finanziaria sono in realtà investimenti che daranno rendimenti molto concreti. A ciò si aggiunga che tagliare le spese governative non è un modo affidabile di aumentare l’occupazione; potrebbe o meno produrre risultati, ma avrà costi in altri campi sociali. Detto questo, ritengo che molte iniziative di welfare state siano controproducenti: riducono gli incentivi a lavorare e ad assumersi rischi di business.
Molti economisti temono che gli investimenti diretti dal governo finiscano con il mettere fuori gioco, “spiazzare”, altri tipi di investimenti – quasi dollaro per dollaro – così che i benefici, se mai ve ne siano, sono pesantemente controbilanciati dal venire meno di benefici provenienti da altri investimenti governativi. La mia risposta è che le azioni intraprese per aumentare l’attrattività delle economie e per finanziare i progetti innovativi non riducono significativamente valore, né aggiungono costi agli altri progetti. Si pensi al boom di investimenti negli anni Novanta in Internet: certo, può aver contratto gli investimenti edilizi ma non li ha spiazzati al punto da annullare l’aumento dell’occupazione complessiva del sistema.
Molti esperti finanziari si chiedono se sia una buona idea lanciare nel settore finanziario un fondo di investimenti per l’innovazione che farà certo meno bene di quanto possano fare gli operatori privati come i venture capitalist. La mia risposta è che in primo luogo non è affatto assodato che i venture capitalist facciano un buon lavoro: richiedono enormi tassi di interesse, così che i progetti più incerti – anche se visionari – non hanno nessuna possibilità. In secondo luogo, il loro settore è solo un piccolo segmento dell’industria finanziaria, sicché è assurdo ipotizzare che si debba far dipendere da esso tutto l’immane compito di sostenere l’innovazione di una nazione. Terzo, non dobbiamo pensare a standard più elevati per il finanziamento dei progetti innovativi, quando l’obiettivo più importante è aumentare il volume dei progetti a disposizione, aumentando la loro dotazione finanziaria e forse il costo del capitale. Infine, dovremmo accogliere un nuovo operatore che, grazie alle sue dimensioni, è pronto a prendersi rischi sconosciuti – e probabilmente grandi – per portare a casa ritorni ugualmente grandi. Ci piacerebbe davvero avere un Mickey Mantle nella nostra squadra di baseball, pur di avere i suoi home runs anche se farà molti strike (o accoglieremmo Franco Corelli nella nostra compagnia operistica anche se rifiuterà di cantare per molti giorni!).
Questo è tempo di crisi per l’Italia, così come per molti altri Paesi in questi giorni. In molti di questi Paesi, il ritorno allo spirito di intraprendenza e delle istituzioni economiche che lo stimolino è la chiave per il ritorno alla prosperità e allo sviluppo personale degli individui. L’Italia ha la fortuna di avere la cultura economica necessaria per un rinascimento della creatività e dell’intraprendenza in economia. Ciò di cui ora ha bisogno sono le istituzioni che la aiutino a riappropriarsi di questo potenziale.
Estratto del discorso al convegno Per rifare l’Italia
per gentile concessione dell’autore