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Fiori di carta di maggio 2011

Per cominciare c’è Leeds «paralizzata sotto un busto ortopedico di neve» perché «l’inverno distrugge ogni altra stagione col suo soffio gelido come fa il lupo con le case dei porcellini» e poi «l’inverno è cominciato da così tanto tempo che nessuno è abbastanza vecchio da aver visto cosa c’era prima».
C’è una città grigia, triste, piovosa, dove sembra impossibile l’allegria, dove la luce del giorno non riesce a vincere l’oscurità di una notte perenne, c’è, insomma, lo scenario perfetto per una vita dolente e insensata, travolta da un silenzio ossessivo e impietoso.
Lassù, trascinata da inquieti genitori alla ricerca di un´indefinibile novità, di una qualsiasi pienezza di vita, è arrivata Camelia ancora adolescente, la quale, intanto che il padre sfoga le sue ansie bohemiénne nella redazione di un giornale intrecciando relazioni adulterine, e la madre, bellissima, cava note sublimi dal flauto, comincia a studiare il cinese all’università.
Per un tempo che si può contare soltanto all’indietro, lungo il filo di una memoria spezzata – meno uno, meno due, meno tre… –, l’incanto di una serenità, che si specchia nel dialogo tenero e intenso tra madre e figlia, ha resistito alla tentazione di lasciarsi sommergere dalla pioggia e dalla neve, le quali comunque, incolori, cadevano «congiurando contro il lirismo spericolato delle piccole fucsie sbocciate nel parco».
Improvvisa e al tempo stesso decisiva irrompe la disgrazia che travolge qualsiasi tranquillità quotidiana e lo stesso destino delle due donne: il padre muore in un incidente di macchina assieme all’amante e la suonatrice di flauto abbandona il suo strumento e la musica chiudendosi in un muto e definitivo silenzio, al più con la figlia dialoga con gli sguardi che ripetono ostinati il suo disinteresse per il mondo, e poi ossessiva inquadra qualsiasi buco si offra all’obiettivo come per penetrare in un altro mondo segreto.
Camelia viene risucchiata assieme alla madre in questa vita disperata e ossessiva, lascia gli studi e guadagna qualche soldo traducendo manuali di istruzioni per l’uso delle lavatrici, si veste – si concia – raccogliendo nei cassonetti vestiti buttati e poi da lei tagliuzzati e rimontati alla brava, «finché la bruttezza si fece folgorante, perfetta».
 
Sarà così, trafficando con stoffe e vestiti, che Camelia incontrerà Wen e ricomincerà a studiare cinese, scoprendo nella complessità della lingua e della scrittura una via per riavvicinarsi alla vita, ai suoi sentimenti e alle sue emozioni, anche se nuovi ostacoli le impediranno di farla sua senza dolore. Se Wen la introduce al cinese e accende il suo desiderio d’amore, sarà il fratello di lui a coinvolgerla in un rapporto erotico oscuro e spietato, come se in ogni caso il mondo si sdoppiasse assurdamente e qualsiasi armonia si rivelasse irraggiungibile.
In fondo raccontare la storia di una vita che una storia non ce l’ha è una sfida complicata, perché da una parte «ricordare è proibito» e dall’altra le storie fanno sempre terribilmente paura, al punto che Camelia bambina implora il padre perché non vuole sentirle, né c’è altro modo di riuscirci che inseguendole in una sequenza di ripetizioni nella quale la verità si stemperi, diventando finalmente accettabile: quel che possiamo dire e mostrare non è altro che la «citazione di un film che è remake di un altro film che è tratto da un libro che è tratto da una storia vera».
Viola Di Grado, che è la giovanissima – ha ventitré anni – autrice di Settanta acrilico trenta lana (edizioni e/o, pp. 192, 16,00 euro), evocando l’etichetta di uno dei vestiti che amputa feroce allude alla inevitabile miscela di autenticità e di invenzione di cui è fatto un libro, ogni libro, ma soprattutto questo del suo esordio, dove, appunto, le ferite di un’esperienza psicologica, prima che esistenziale, si rivelano in una baluginante scrittura zeppa di sorprendenti metafore, di improvvise illuminazioni, che lo rendono ben difficilmente dimenticabile, una compagnia che dura nel tempo della memoria e dell’immaginazione.

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