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L’Italia si è impegnata a ridurre le emissioni e a produrre il 17% di energia primaria da fonti rinnovabili. Per l’energia elettrica l’Italia necessita di 200 milioni di Tep (Tonnellate equivalenti di petrolio). Questa unità di misura, che costituisce un modo intelligente di comparare alla pari le varie fonti energetiche, è piuttosto ostica ai nostri decision maker che tra l’altro, non vedendo girare sui bilanci dello Stato l’impatto economico che le varie normative hanno sul Paese, non sono in condizione di valutare le conseguenze delle loro decisioni sulle tariffe e sugli incentivi.
La consapevolezza di dover riarrangiare il mix energetico aveva portato il governo ad annunciare scelte verso un 50% di fonti fossili, 25% di nucleare e 25% di Fer (rinnovabili). La tragedia di Fukushima e i venti di guerra in Medio Oriente sollevano fieri dubbi che tale strategia possa essere perseguita con successo.
Al di là dei nostri impegni con l’Europa, vale la pena interrogarsi sulle alternative realmente praticabili nel campo delle rinnovabili e sul loro costo.
 
La situazione dell’Italia
Per quanto riguarda l’eolico, in Italia purtroppo il vento non spira forte e costante se non in pochissime regioni e anche le installazioni, per altro molto contestate, da coste che vivono di turismo sono molto penalizzate nei confronti di loro omologhe nel Mare del Nord dove c’è più vento e i fondali sono meno profondi. La cosa curiosa è che, invece di rinunciare a farle, si chiedono a gran voce incentivi più ricchi di modo da compensare lo svantaggio.
Nel fotovoltaico l’Italia ha velocemente recuperato un ritardo grazie anche a un sistema di incentivi molto aggressivo: 8mila MWp contro i 55mila della Germania.
Lo sviluppo della tecnologia ha ridotto significativamente i costi di installazione e migliorato le rese. Sarebbe quindi auspicabile che, nei prossimi anni, gli incentivi rimanessero in essere, seppur drasticamente ridotti, al fine di continuare a spingere la ricerca verso la grid parity che potrebbe essere raggiunta alle nostre latitudini intorno al 2016/17. Dalle ultime notizie, piuttosto scarne a dire il vero, non sembra che le normative verranno scritte in tal senso.
La fonte di energia rinnovabile più vicina alla parità è sicuramente quella delle biomasse. Le biomasse sono assolutamente convenienti per produrre energia elettrica, naturalmente se si accetta il “disturbo” di aver sul proprio territorio centrali di buone dimensioni da 30/40 MW di potenza che quindi richiedono 300/400mila tonnellate/anno di biomassa per funzionare.
In Italia la superficie è di 300mila kmq, cioè 30 milioni di ettari, di cui solo dieci dedicati all’agricoltura propriamente detta e solo cinque che producono un reddito agricolo significativo e ancora meno sono dedicati all’alimentazione e alla zootecnia.
In questa situazione esiste sicuramente la possibilità di produrre energia, biocarburanti, biochimica dalle biomasse con la prospettiva di essere l’unica fonte rinnovabile che si avvicini alla parità con le fonti fossili già ora e in assenza di incentivi. È importante chiarire che ci sono in Italia sufficienti ettari per produrre biomasse per energia e biocarburanti senza competere con il cibo umano o animale.
 
Sostenibilità e convenienza economica
Le biomasse possono essere residui agricoli o colture dedicate che però vengano cresciute su terreni marginali con modesto utilizzo di fertilizzanti e con l’ausilio di pochissima acqua, preferibilmente di sola origine piovana. Prelevando solo un quarto del residuo disponibile esistente, secondo uno studio recentemente pubblicato da Bloomberg, esistono in Italia ben 18 milioni di tonnellate di residuo agricolo disponibili prima di utilizzare colture dedicate.
In questo momento, anche a causa dell’alto prezzo del petrolio, energia e prodotti provenienti dalle biomasse sono molto più convenienti di quelli di origine fossile e continueranno a esserlo se il petrolio non scenderà sotto i 50$/bb.
Se gli incentivi che così generosamente sono stati erogati all’installazione fossero dedicati anche in minima parte alla ricerca e all’educazione degli agricoltori nella raccolta e utilizzo proficuo delle biomasse, l’Italia potrebbe coprire in breve il gap tecnologico che la separa dalle nazioni più evolute nel campo della biochimica e dei biocarburanti utilizzando l’immenso serbatoio di sapere che ancora esiste nel nostro Paese nonostante anni di scarsi contributi alla ricerca e scarsa programmazione universitaria.
 
Nel campo delle biomasse, la Chemtex, società di ingegneria del Gruppo Mossi&Ghisolfi, dopo cinque anni e 120MM€ investiti in ricerca, ha iniziato a costruire un impianto per la produzione di etanolo cellulosico da paglia di riso e canna palustre della capacità di 50ktpa a Crescentino (Vc). L’etanolo che sarà prodotto a partire dal 2012 sarà venduto in quanto più conveniente della benzina e non perché è “verde”.
Il rispetto delle normative europee richiederà immissione al consumo di almeno 1,5 milioni di tpa di etanolo e di 3,3 milioni di biodiesel, se queste, prodotte secondo le tecnologie di seconda generazione, saranno convenienti per chi le produce e benefiche per l’ambiente. Con una produzione di circa 10 t/ha di prodotti provenienti dalle biomasse, questo obiettivo si potrà raggiungere con soli 450mila ettari che sono meno di quanto è stato il set aside nella nostra nazione. Se poi si confronta il costo di un “barile di biomassa” (10$) con quello di un barile di petrolio (100$), risulta più che evidente dove dovrebbero andare le poche risorse messe a disposizione delle fonti rinnovabili. Non tanto alla loro installazione sul territorio quanto alla ricerca per renderle più competitive senza incentivi perenni.
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