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Così nacque la Dc

Aristotele ci ha insegnato che la politica è l’“arte” di governare le società. È dunque un atto profondamente creativo, che poggia su di un progetto e prescinde dagli umori e dall’orientamento dell’opinione pubblica. La politica non deve, insomma, inseguire il consenso (tantomeno attraverso i sondaggi); deve piuttosto raccoglierlo per effetto della sua forza propositiva e progettuale, per i valori di fondo che la ispirano e per la società che essa intende costruire per il domani.
In una circostanza temporale precisa, nell’autunno del 1942, quando la guerra mondiale è ancora in corso, da due versanti diversi eppur limitrofi – da un lato i giovani dell’Ac e della Fuci, dall’altro Alcide Degasperi (sì, scritto proprio così, tutto attaccato, com’era in origine) – si gettano già le fondamenta del Paese e del suo futuro, una volta terminato il conflitto. È interessante approfondire i principi che emersero dall’incontro di Camaldoli (18-23 luglio 1943), che si svolse un mese e mezzo prima della resa incondizionata; incontro in cui furono messe a fuoco le posizioni di politica economica e sociale che avrebbero poi ispirato la politica democristiana e, di conseguenza, la vocazione marcatamente interventista dello Stato nell’economia, attraverso le partecipazioni statali.
 
La sfida era coraggiosa, poiché – in quel momento – l’intervento statale e il dirigismo risentivano, anche in termini di immagine presso l’opinione pubblica, dell’eredità fascista. E tuttavia, un tasso – benché minimo – di intervento pubblico nell’economia era sostenuto anche dagli esponenti politici di ispirazione liberista. In sostanza, vi fu una sorta di convergenza sulla figura dello Stato imprenditore, favorita pure dal fatto che il capitalismo privato non era maturo e dal punto di vista culturale versava in uno stato di generalizzata arretratezza. Presto però si verificò la trasformazione di un modello liberista in un modello programmatorio, attraverso l’adozione delle politiche assistenziali finalizzate a coprirne le perdite di gestione e a condizionare l’evoluzione del sistema economico.
È parimenti suggestivo ricordare quale fu l’atteggiamento di Alcide Degasperi che in quel momento frequentava la Biblioteca Vaticana: quale il suo pensiero e quale il modello di sviluppo in cui credeva, visto che di quei principi si sarebbe fatto in qualche modo interprete, reggendo le sorti del Paese nell’immediato dopoguerra. Riuscendo altresì – con il capolavoro di Parigi del febbraio 1947, nella circostanza del Trattato di Pace – a garantire il reingresso del Paese nell’alveo delle democrazie occidentali, di fronte alla più severa ostilità internazionale.
 
Spesso sottovalutate o ritenute marginali rispetto al realismo politico e all’alto senso delle istituzioni, le posizioni dello statista trentino in ordine all’economia possono essere riassunte nel tentativo di trovare una sintesi tra solidarismo e libero mercato.
In quel momento i tre principali partiti erano ostili all’impresa privata: Pci e Psi per una questione ideologica di fondo, la Dc perché il capitalismo era il simbolo degli aspetti deteriori dell’inclinazione umana (mancanza di etica, avidità, egoismo). Nel momento in cui lo intuì, Degasperi cercò di tenere ben separate le questioni politiche da quelle economiche, ma la sua azione di governo fu condizionata da chi intendeva perseguire una ricomposizione di questi due aspetti in un quadro unitario, che era ideologico e programmatico.
 
Nel raccoglimento della Biblioteca Vaticana, lo statista trentino guardava al futuro, oltre la fine del conflitto, al di là del fascismo e della monarchia, pensando anzitutto alla necessità di ricostruire il Paese sul piano etico e civile. E si collocò al centro, nel tentativo di approdare – grazie al suo fermo moderatismo – a una mediazione, tra le varie anime della nascente Dc, tra i vecchi popolari, i nuovi giovani integralisti e l’ala più radicale. Proprio queste anime, tuttavia, conferivano al partito la capacità di penetrare a fondo nella società italiana, soprattutto nella piccola e nella media borghesia. Anime che, per un certo periodo, egli riuscì a tenere insieme grazie al suo proverbiale pragmatismo di uomo delle montagne, schietto e concreto.
Degasperi veniva individuato come un ineludibile punto di riferimento anche dagli altri interlocutori della vecchia classe politica (Bonomi, Croce, Sforza, Buozzi, La Malfa, Amendola) che potevano tornare allo scoperto. Ciò lo indusse a dare alla Dc un volto laico – fondato sulla libertà, strumento essenziale per sostenere la crescita della persona e il progresso sociale – ma cristiano, nel deliberato tentativo di porsi davvero al centro.
 
Rispetto allo Stato liberale e al fascismo si pose in modo critico, senza tuttavia respingerne in blocco l’esperienza politica, soprattutto dal punto di vista sociale. La sua idea era quella di costruire uno Stato davvero moderno e democratico, fondato sul decentramento per ragioni di funzionalità burocratica e amministrativa, per dare vita a un rapporto equilibrato – non soverchiante – con il cittadino e per eliminare gli squilibri territoriali e sociali. Il principio di uno Stato sociale che tutelasse i più deboli era per lui importante, così come un fisco equo e un sistema salariale con la compartecipazione dei lavoratori ai profitti.
Degasperi era un uomo cattolico del nord e, dunque, guardava con avversione alle concentrazioni monopolistiche. Il suo cuore batteva per la piccola e media impresa nel settore dell’agricoltura, delle arti e dei mestieri, dell’artigianato e per il sistema delle casse rurali. Ma alla grande industria e alla sua spinta propulsiva sul piano della ricerca e dell’innovazione tecnologica guardava con interesse, anche se in essa si potevano creare le condizioni per lo sviluppo del marxismo e l’affermazione della lotta di classe. Non era contrario all’industria di Stato; pensava piuttosto al suo equilibrato sviluppo. Negli anni della guerra aveva coltivato i contatti con Schumann e Adenauer. Perché sognava l’Europa: questo era il suo progetto.


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