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Il necessario passo indietro

Un Rapporto sull’economia sociale nella Ue discusso dal Parlamento europeo a febbraio 2009 mostra una crescita generalizzata in Europa delle organizzazioni attive nel no-profit e dei rispettivi addetti: il settore rappresenta il 10% di tutte le imprese europee e il 6% dei posti di lavoro. Un quadro di crescente vitalità emerge con specifico riferimento al nostro Paese dal Rapporto Cnel sull’economia sociale del 2008.
Lo sviluppo del Terzo settore, tuttavia, è fondamentale non solo per finalità squisitamente economiche. È sempre più diffusa, infatti, la consapevolezza che l’espansione degli organismi no-profit sia necessaria per lo sviluppo democratico di un Paese. Queste attività sono dotate di un peculiare valore aggiunto, ulteriore al valore economico dei servizi che rendono. Si tratta dell’instaurazione di quei vincoli di solidarietà e di quel senso di appartenenza alla collettività che costituiscono le condizioni necessarie per un auspicabile salto di qualità della convivenza civile nel nostro Paese.
 
Lo stesso Adam Smith, che ha incentrato la sua teorizzazione sui benefici collettivi che derivano dall’interazione casuale dell’attività dei vari individui che perseguono ciascuno il proprio utile, riconosceva l’importanza delle esperienze di solidarietà e di apertura nei confronti dell’altro. Egli scrisse che mentre l’assennatezza è “di tutte le virtù quella più utile per l’individuo”, “umanità, giustizia, generosità e spirito pubblico sono le qualità più utili per il prossimo” (La teoria dei sentimenti morali, 1759). Don Giussani secoli dopo in Italia avrebbe portato all’ennesima potenza il valore di quell’accenno ai principi solidaristici che non sono il contraltare ma il completamento della meritocrazia e della competizione.
Un ordinamento che riconosca il libero mercato non per questo deve negare la dimensione altruistica e disinteressata che è propria dell’essere umano come tale.
In concreto si deve osservare che lo sviluppo del settore passa necessariamente per l’instaurazione di un quadro normativo e istituzionale favorevole.
 
Nel nostro Paese l’apparato delle regole e, oltre a esso, la stessa cultura istituzionale e burocratica appaiono ancora sensibili alla originaria impronta liberale che vedeva con sfavore queste attività dei corpi intermedi.
La giurisprudenza della Corte costituzionale ha progressivamente fatto emergere un peculiare statuto costituzionale di questo settore, anche prima della novella dell’art. 118 apportata dalla revisione del 2001. Questo orientamento ha cominciato a intaccare lo schematismo tradizionale secondo cui il potere pubblico era il depositario esclusivo dell’interesse generale, mentre l’autonomia privata era espressione di interessi meramente privati.
Con la nuova formula dell’art. 118, che ha canonizzato il principio di sussidiarietà verticale e orizzontale, tuttavia il legislatore costituente non ha solo esplicitato quella che era una garanzia implicita nel testo della Costituzione del ‘48 valorizzata dalla Corte, ma ha chiaramente imposto allo Stato, alle Regioni, alle Città metropolitane, alle Province e ai Comuni di favorire “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale”.
Si deve però riconoscere che tale favor non si è ancora tradotto in un sistema normativo e amministrativo coerente e appropriato.
La legislazione rilevante appare, infatti, spesso disorganica e a volte farraginosa, i controlli amministrativi molto incisivi e onerosi, come del resto l’Agenzia di vigilanza del settore ha più volte puntualmente segnalato.
 
Tale situazione spiega la ragione per cui, nel nostro Paese, il settore appare comunque assai meno sviluppato che in altre nazioni. Per quanto sia difficile calcolare la sua incidenza, alcune stime rivelano che negli Stati Uniti il 6% del Pil è prodotto dal no-profit; anche a livello europeo questa percentuale si attesta intorno al 6%; in Italia, invece, siamo solamente intorno al 2,6%.
Il tema dello sviluppo del no-profit è, dunque, centrale e, anche da noi, potrebbe costituire un fattore importante per garantire servizi pubblici sempre più efficienti, nonostante la crisi fiscale e l’inadeguatezza organizzativa dello Stato contemporaneo.
In questa nuova prospettiva, lo Stato, e in genere il soggetto pubblico, dovrebbe, con progressione graduale, non tanto rendersi del tutto estraneo al tema dei servizi pubblici. Questo esito non è compatibile con i nostri principi costituzionali. Lo Stato dovrebbe piuttosto stabilire il contesto normativo e amministrativo nel quale possano svilupparsi e coesistere in modo armonico le diverse iniziative dei privati: profit e no-profit.
 
Il pubblico, anziché essere produttore e diretto gestore di imprese, dovrebbe limitarsi a fornire ai singoli cittadini, in relazione alle loro capacità finanziarie e quindi secondo criteri redistributivi, una sorta di assicurazione in base alla quale poi ciascuno possa scegliere l’offerta che ritiene migliore in una compagine plurale e diversificata. Ciò potrebbe valere soprattutto per servizi come quelli sanitari e l’assistenza sociale.
Quello che andrebbe riaffermato, nella dimensione italiana, non è quindi la fuga dallo Stato o dall’ente pubblico, ma il mutamento qualitativo del suo intervento. Va attribuito il potere di scelta ai singoli. Attraverso tale potere la competizione tra imprese profit e no-profit selezionerà i soggetti migliori nel fornire determinati servizi. Lo Stato, in questa prospettiva, dovrebbe conservare la funzione di garante di ultima istanza dell’effettività del servizio, ma smetterebbe di essere gestore diretto. Occorre ricordare che è proprio la gestione diretta del servizio e, quindi, la possibilità implicita di distribuire risorse in termini di commesse pubbliche e impieghi di lavoro che determina le maggiori distorsioni nella situazione attuale e, in particolare, causa la perdita di responsabilità dei soggetti pubblici gestori che versano in un permanente conflitto di ruolo. Da questa situazione derivano inevitabili ricadute in termini di qualità scadente, lievitazioni dei costi e gestioni imprenditoriali in disavanzo, tutti pregiudizi che si riverberano inevitabilmente sulla collettività indistinta e indifesa dei cittadini contribuenti.
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